Lontani i tempi in cui Donald Rumsfeld bollava Al Jazeera come l’araldo dei terroristi, perché pronta a mandare in onda uno dopo l’altro i proclami di Osama Bin Laden contro l’Occidente. Oggi il network – secondo molti esperti di marketing uno dei brand più forti al mondo appena dopo miti come Google, Apple, Ikea – è messo sotto accusa non dall’amministrazione statunitense, ma dagli stessi autocrati arabi.
Il primo ad attaccarla è stato Muammar Gheddafi in un discorso successivo all’intervento della coalizione: un’invettiva in piena regola, con accuse di manipolare la verità e di essere al servizio degli occidentali. Durissimo anche il presidente siriano Basher Assad che accusa pesantemente le TV panarabe di diffondere notizie false e, insieme all’invio di messaggi via SMS, di fomentare la sedizione. La TV del Qatar non è nominata espressamente, ma il bersaglio dell’accusa è chiaro ai più. “Parte della colpa – sostiene Assad – è di chi su Internet e in TV ha falsificato le notizie. Le divisioni sono iniziate attraverso i canali satellitari e gli incidenti sono stati istigati attraverso i media”. D’altra parte Al Jazeera è anche sul banco degli imputati per disinformazione, sin dalla prima fase della crisi libica: un’accusa per certi versi fondata e che avrebbe contribuito alla decisione di intervenire contro Tripoli.
Se i social network hanno fatto da collettore e collante della rivolta araba sin dagli inizi, Al Jazeera è stata da Piazza Tahrir in poi la voce narrante di un rivolgimento che è cresciuto anche all’ombra delle sue immagini. Come la CNN di Peter Arnett nella prima Guerra del Golfo, la televisione panaraba si è conquistata nel panorama mediatico globale un posto di leadership assoluta. È spesso Al Jazeera la fonte delle corrispondenze dalla Libia in fiamme, è Al Jazeera la più impegnata nel duro gioco di contrasto alla controinformazione e alla propaganda dei regimi sotto attacco. Il ruolo diviene sempre più strettamente politico, quasi ad imitazione, soprattutto nello scenario libico, di quello che la CNN era per l’amministrazione americana durante la rivolta di Piazza Tiananmen a Pechino: una fonte da consultare anche prima dei dispacci diplomatici. L’idea di Hamad, emiro del Qatar, ha colpito nel segno: è possibile servirsi di un medium come strumento diplomatico non controllandolo rigidamente, ma facendosene mecenate e garante.
In realtà gli autocrati arabi sanno per certo che l’accusa ad Al Jazeera di fare controinformazione per screditare i regimi al potere e mobilitare la rivolta è, paradossalmente, limitativa. C’è molto di più. Dal 1996 – anno della sua fondazione – ci sono quindici anni di graduale evoluzione verso idee di libertà e democrazia. Al Jazeera irrompe nello spazio satellitare con programmi di alta qualità, e immagini live delle principali vicende regionali mediorientali. È spregiudicata, presenta idee contrapposte, privilegia il dibattito senza posizioni rigidamente controllate. Fino a quando, con gli anni, tutte le anime del pensiero politico arabo, messe lungamente a tacere dai regimi, trovano nell’emittente del Qatar una tribuna di discussione.
Con un fenomeno carsico – sebbene in ambienti spesso desertici – queste idee sono state lentamente, ma efficacemente, trasmesse a milioni di arabi, soprattutto a quei giovani che ora si riconoscono nel tentativo di scardinare la concezione di una “genetica” incapacità araba a costruire società democratiche e libere.
E dal 2006, anno in cui nasce Al Jazeera International, il fenomeno non è più soltanto panarabo, diventa globale. Ai consolidati 50 milioni di audience del mondo arabo se ne aggiungeranno molti altri di lingua inglese: non solo Medio Oriente, ma Europa e Asia. Dall’alba al tramonto, l’emittente del Qatar apre i notiziari in Asia per spostarsi a Doha, virare su Londra e fermarsi su Washington. Un giro di orologio simbolico quanto efficace che detta la nuova linea editoriale per la tv del futuro: attenzione ai fatti locali inseriti nel grande circuito globale. Ed è per questo che rivoluzioni, conflitti, carestie, terremoti vengono affidati a competenti giornalisti locali piuttosto che a corrispondenti inviati dal centro. Una rivoluzione copernicana rispetto al modello, seppure di successo, della CNN degli anni Novanta.
Non c’è, quindi, da stupirsi che David Cameron, alla vigilia del vertice di Londra sulla Libia, non abbia esitazioni e scelga Al Jazeera per un’intervista esclusiva sulle motivazioni e gli obiettivi delle operazioni della coalizione. L’atteggiamento è dialogante, la postura è rilassata e le risposte del premier britannico sono brevi, asciutte e vanno al punto, senza tralasciare persino un po’ di passione politica. Sicuro di poter essere capito quando parla di libertà e democrazia. Come se fosse sulla BBC.