Tra Trump e Kim uno stallo ma non ancora un fiasco

Il summit di Hanoi (Vietnam) del 27-28 febbraio tra Donald Trump e Kim Jong-un non ha prodotto accordo tra le due parti, perché le posizioni restano lontane su alcuni punti fondamentali. In particolare, secondo le dichiarazioni di Trump, le trattative si sono bloccate quando Kim Jong-un ha chiesto la cancellazione di tutte le sanzioni contro il regime, in cambio non dell’interruzione dell’intero programma nucleare, ma solo della chiusura dell’impianto di ricerca e sviluppo di Yongbyon. Questa versione è parzialmente in contrasto con le dichiarazioni del ministro degli Esteri nordcoreano Ri Yong-ho, che ha parlato di richiesta di cancellazione di parte delle sanzioni contro il regime.

Lo stallo di Hanoi può sembrare un cattivo risultato, soprattutto se si volge lo sguardo al primo summit tra Trump e Kim Jong-un, svoltosi a Singapore nel giugno del 2018. In quella occasione i due capi di Stato si erano impegnati a “cooperare per la denuclearizzazione della penisola coreana”. Le due parti, però, danno un significato molto diverso a questa formula. Per gli Stati Uniti, equivale alla cosiddetta “CIVD” (de-nuclearizzazione completa, irreversibile, e verificabile), ovvero allo smantellamento totale del programma atomico nord-coreano. Per la Corea del Nord, significa una sospensione del programma atomico in corso, in cambio però della fine della minaccia nucleare americana: la fine dell’alleanza tra Corea del Sud e Stati Uniti, e il ritiro delle truppe USA dalla penisola.

Kim e Trump a Hanoi

 

Un bilancio in chiaroscuro

Tuttavia, una serie di sviluppi significativi portano a sfumare il giudizio sul summit di Hanoi. In primo luogo, in questi mesi Pyongyang ha cessato sia le esercitazioni missilistiche sia i test nucleari, che avevano provocato l’aumento della tensione con Seul, Tokyo e Washington – risultato rivendicato da Trump come successo della sua apertura.

La fine dei test è corrisposta alla fine delle manovre militari congiunte tra Corea del Sud e Stati Uniti nella penisola, come promesso da Trump a Singapore. Questa sospensione ha sollevato critiche dagli ambienti militari americani, che temono un declino dell’efficacia del meccanismo di deterrenza: senza un’adeguata preparazione militare che consenta una risposta immediata, secondo le forze armate, nulla impedirà alla Corea del Nord di accumulare vantaggi tattici nell’eventualità di un’invasione del Sud.

La Corea del Nord, in effetti, non ha interrotto lo sviluppo del programma nucleare e la produzione di materiale fissile e ha continuato le proprie esercitazioni militari di tipo convenzionale. A novembre sono poi emerse prove sia dell’esistenza di venti basi missilistiche nordcoreane, note all’intelligence americana ma non al pubblico, sia di prove che lo smantellamento di alcuni impianti militari, promesso a Singapore, è stato svolto in modo parziale e reversibile. In gennaio, Donald Trump ha sostenuto però che i servizi segreti USA sopravvalutavano la minaccia nucleare nordcoreana.

Una delle venti basi “segrete” individuate via satellite

 

I convitati di pietra

L’avvicinamento al summit ha visto svolgersi quella dinamica bilaterale che caratterizza la diplomazia dell’amministrazione Trump: gli altri alleati sono stati tenuti ai margini della questione – cosa che non gli ha impedito di sviluppare un’azione diplomatica indipendente. Il presidente sud-coreano Moon Jae-in si è impegnato nella distensione con il Nord, come testimoniato dalla visita a Pyongyang dello scorso settembre e con il mantenimento di un costante dialogo. Seul, infatti, non può scartare la possibilità che Trump ritiri davvero le truppe americane dalla Corea: ha dunque bisogno di un equilibrio tra il tentativo di preservare gli accordi con Washington, e la necessità di migliorare i rapporti con il regime di Pyongyang (e il suo enorme esercito).

Dai negoziati è stato parzialmente escluso anche il Giappone, che negli ultimi mesi ha visto anche deteriorarsi la relazione con Seul a causa del riemergere del conflitto sull’isola Dokdo-Takeshima, e sulle dispute legate alla memoria storica dell’invasione giapponese della Corea. Come la Corea, però, il Giappone teme che un eventuale accordo tra Trump e Kim Jong-un riguardi solo la sicurezza del territorio statunitense. Se Pyongyang non potrà sviluppare missili a lungo raggio capaci di raggiungere il continente americano, potrebbe però avere il permesso da Washington di costruire quelli a medio raggio, sufficienti per colpire con testate nucleari il suolo giapponese.

Un quinto protagonista, abile più degli altri a rimanere nell’ombra, non va mai dimenticato parlando di questione coreana: la Cina. Dopo i litigi del passato recente, prosegue il riavvicinamento tra Pechino e Pyongyang. Le sanzioni cinesi sono state ulteriormente allentate, la politica della massima pressione (occidentale e cinese) contro il regime di Kim Jong-un, nella speranza addirittura di farlo cadere, è ora molto lontana.

Test missilistici nordcoreani che hanno sorvolato il territorio giapponese (Elaborazione da Wikipedia)

 

Aspettative e conseguenze

Nelle settimane precedenti al summit di Hanoi sia il Presidente che la diplomazia americana hanno cercato di diminuire le aspettative. Mentre prima del summit di Singapore Donald Trump parlava di imminente de-nuclearizzazione, prima del summit to Hanoi ha ammesso di “non avere fretta” e che la “denuclearizzazione è un processo lungo”. Date queste premesse, il nulla di fatto del summit non è da considerarsi lo scenario peggiore. C’era anche la possibilità che Trump, per sbandierare un successo diplomatico, accettasse un accordo in realtà sfavorevole per gli Stati Uniti, che avrebbe scontentato gli alleati coreani e giapponesi e messo a repentaglio la tenuta del regime di non proliferazione. Invece, Trump ha difeso lo stallo dichiarando: “meglio avere un buon accordo che un accordo veloce”.

Un “accordo veloce” avrebbe potuto comportare vari salti nel buio. Ad esempio, la firma di un trattato di pace (ancora non siglato, dalla fine del conflitto negli anni ’50) prima del raggiungimento di progressi concreti sul fronte della de-nuclearizzazione; l’ indebolimento dell’alleanza con la Corea del Sud, e della presenza militare americana nella penisola; la fine delle sanzioni contro Pyongyang; il riconoscimento de jure o de facto della Corea del Nord come stato nucleare. Di conseguenza, il temuto decoupling delle alleanze con Corea del Sud e Giappone è stato evitato.

Il mancato accordo avrà comunque conseguenze di breve e medio periodo.

In primo luogo, il fallimento del summit testimonia come accordi complessi come quello con la Corea del Nord richiedano un lungo lavoro preparatorio da parte delle diplomazie, e non possano essere risolti solo dalla presunta capacità negoziale del Presidente americano. In questo caso emerge come Trump abbia accettato di partecipare al summit senza che i contorni di un accordo fossero definiti, confidando nella capacità di stabilire un rapporto personale con Kim Jong-un, trovando linee comuni durante l’incontro. Non è andata così. E’ difficile quindi immaginare nuovi summit nel futuro prossimo, a meno che una delle due parti non cambi radicalmente la sua posizione.

Il futuro dei negoziati dipende anche da come i due leader interpreteranno il fallimento del summit. Trump, durante la conferenza stampa, ha presentato il mancato accordo come uno stallo momentaneo, che non pregiudica il processo negoziale. Inoltre, ha ribadito che la relazione personale con Kim rimane buona. E’ più difficile prevedere la reazione di Kim Jong-un, che potrebbe seguire la stessa strategia: continuazione del programma nucleare, ma senza i test che finiscono sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, tenendo aperto il canale negoziale. L’alternativa è il ritorno ai test, ossia alla situazione pre-Singapore.

Per il momento, il regime sembra mandare una serie di segnali contraddittori. Le prime reazioni della agenzia di stampa di Pyongyang parlavano di un “occasione persa per gli Stati Uniti” e dell’impossibilità di tornare a trattare dopo il fallimento del summit.  Questi annunci si alternano a segnali di distensione. Ad esempio, la permanenza in Vietnam del leader nord-coreano nei due giorni successivi al summit può essere considerata un segnale positivo. La visita del paese viene descritta come utile per conoscere il modello di sviluppo vietnamita, che unisce apertura economica e integrazione nel sistema economico globale ad un regime politico a partito unico. Inoltre, sta reggendo l’accordo che prevede lo stop dei test in cambio dello stop alle esercitazioni congiunte tra Corea del Sud e Stati Uniti.

A questo punto, il compito di mantenere la distensione iniziata nel 2018 ricade soprattutto sul presidente sud coreano Moon Jae-in che ha investito gran parte del suo capitale politico sul miglioramento dei rapporti inter-coreani. Il Primo marzo, in occasione del centesimo anniversario del movimento indipendentista[1] coreano, Moon ha fatto appello all’unità nazionale tra le due Coree, ha annunciato la creazione di un “nuovo regime di pace e cooperazione” per la penisola coreana e ha dichiarato che la Corea del Sud si assumerà il ruolo di guida negoziale.

In conclusione, il fallimento del summit di Hanoi mette in evidenza la complessità della questione nord-coreana e la distanza che rimane tra gli interessi delle due parti; la diplomazia personale tra i due leader resta insufficiente a risolverla. Inoltre, diventa ancora più evidente la necessità per gli Stati Uniti di affiancare alle trattative un continuo coordinamento con gli alleati, e il mantenimento della deterrenza nei confronti del regime di Pyongyang.

 

 

 

[1] Il Primo marzo del 1919 è la data d’inizio della resistenza alla colonizzazione giapponese in Corea. Il movimento, influenzato dalle idee wilsoniane di auto-determinazione, approvò una dichiarazione di indipendenza dal Giappone, che scatenò la repressione da parte delle forze di occupazione.

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