Manca un anno alle elezioni di mezzo termine: si tratta di un appuntamento elettorale che potrebbe cambiare faccia alla politica statunitense, influendo sul secondo biennio di presidenza Trump. Numeri alla mano, il Partito Repubblicano si trova in una delle sue migliori situazioni di sempre, avendo il controllo della Casa Bianca e di entrambi i rami del Congresso. Tuttavia, le ripetute frizioni tra la Presidenza e la maggioranza parlamentare hanno di fatto rallentato l’azione legislativa; e questa di certo non potrà accelerare nei prossimi dodici mesi, quando un terzo dei senatori e tutti i deputati saranno impegnati a fare campagna elettorale nei collegi d’origine.
Con il voto di metà mandato, i Repubblicani contano di confermare la maggioranza sia alla Camera che al Senato, mentre i Democratici mirano a un saldo positivo di 3 senatori e di 24 deputati che li riporterebbe a controllare entrambi i rami del Congresso. Per l’opposizione non sarà un compito facile (un Congresso interamente Democratico non si registra dal primo biennio di Barack Obama alla Casa Bianca), ma a suo favore giocano sia la bassa popolarità di Donald Trump (da mesi costantemente sotto al 40%) sia soprattutto, la storia stessa delle elezioni di midterm – un evento elettorale che ha visto quasi sempre il partito alla Casa Bianca uscire sconfitto.
Le serie storiche sembrerebbero infatti far presagire il risultato ideale per i Democratici: nelle 18 midterm che si sono tenute dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, il partito del Presidente ha perso in media 25 seggi alla Camera e 4 seggi al Senato. Considerando invece le 9 elezioni dove il partito alla Casa Bianca controllava anche entrambi i rami del Congresso (una situazione quindi come quella attuale), il saldo negativo sale a 33 deputati e a 4,7 seggi al Senato. Nelle 9 midterm nelle quali il Presidente si è trovato immediatamente prima del voto con un indice di popolarità inferiore al 50%, il suo partito ha perso in media 36 seggi alla Camera e 5,8 seggi al Senato. Infine, nelle 7 midterm dove la presidenza controllava l’intero Congresso e i sondaggi assegnavano al Presidente una popolarità inferiore al 50% –cioè la situazione che andrebbe profilandosi per il 2018 – le sconfitte per la maggioranza sono state ancora più severe: una media di 41 deputati persi e 6,4 seggi al Senato in meno.
Se alle elezioni presidenziali vota sempre più della metà dei registrati al voto (con l’unica eccezione del 49% del 1996), negli ultimi 60 anni la media di affluenza alle midterm si è attestata attorno al 40%. Il voto di metà mandato è spesso considerato un referendum sull’operato del presidente, ma in realtà negli ultimi 100 anni sono appena due i casi in cui il partito alla Casa Bianca è riuscito a incrementare i propri seggi sia alla Camera che al Senato. Si tratta in entrambi i casi di situazioni eccezionali. Nel 1934, quando i Democratici che avevano alla Presidenza Franklin Delano Roosevelt riuscirono a guadagnare 9 seggi in entrambi i rami del Congresso, forti anche dell’approvazione del New Deal e dei primi effetti della ripresa economica (il pil, nell’anno 1934, crebbe di un incredibile +10%). E nel 2002, quando il Paese si strinse attorno a George W. Bush dopo l’11 Settembre e la decisione di intervenire militarmente in Afghanistan. La popolarità del Presidente era ancora sul 70% (dopo un picco del 90% dell’anno precedente) e i Repubblicani ebbero un saldo positivo di 8 seggi alla Camera e di 2 al Senato.
Andando a ritroso nel tempo, vengono alla mente alcune delle midterm passate alla storia. Le più note sono probabilmente quelle del 1994. Si tratta delle elezioni che si tennero a metà del primo mandato della presidenza di Bill Clinton e che videro un trionfo Repubblicano, trascinato dal celebre “Contratto con l’America”, efficacissimo espediente retorico ideato dall’allora leader di minoranza Newt Gingrich. Sfruttando le difficoltà dell’amministrazione Clinton e organizzando una campagna elettorale per la prima volta veramente coordinata a livello nazionale, i Repubblicani guadagnarono 54 seggi alla Camera e 8 al Senato, rovesciando la precedente maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Era dal 1954 che Camera e Senato non passavano di mano contemporaneamente, e sempre dal 1954 i Democratici controllavano ininterrottamente la Camera. L’elezione viene considerata uno spartiacque perché fu la prima a mostrare la centralizzazione – e dunque in qualche modo la “europeizzazione” – dei partiti americani, che fino a quel punto conducevano campagne elettorali per il Congresso prevalentemente organizzate a livello statale invece che federale. Il voto permise inoltre ai Repubblicani di mantenere il controllo della Camera per i successivi 12 anni e in più segnò l’avvento di quel rampante neoconservatorismo che avrebbe poi aperto le porte ai due mandati presidenziali di George W. Bush.
Nel 2010, invece, nel pieno della cosiddetta Grande Recessione, il Partito Democratico che appena due anni prima aveva trionfalmente portato il primo afro-americano alla presidenza, subì una pesante sconfitta, perdendo la Camera (-63 seggi) e vedendosi erodere 6 seggi al Senato, pur mantenendone il controllo. In un’elezione fortemente caratterizzata dai temi economici e dal dibattito sulla riforma sanitaria, i Repubblicani misero a segno il più ampio recupero di seggi dal 1948 e la più larga vittoria in una midterm dal 1938.
Un’altra storica elezione di medio termine fu quella del 1974, ricordata come una vera ecatombe per i Repubblicani che si presentarono di fronte agli elettori con un Presidente indagato e dimessosi da tre mesi (Richard Nixon) e un nuovo Presidente (Henry Ford) mai eletto e che aveva appena comminato un contestatissimo perdono al suo predecessore. Lo scandalo Watergate aveva monopolizzato il dibattito politico, mentre la crisi energetica e una forte inflazione avevano contribuito a surriscaldare ulteriormente la campagna. I Democratici guadagnarono 49 seggi alla Camera, portando la loro maggioranza oltre i due terzi dell’assemblea. Al Senato il saldo positivo fu di quattro seggi, sufficienti a portare la loro maggioranza oltre la soglia dei 60 senatori, necessaria a superare ogni tentativo di filibustering (la classica tattica ostruzionistica). Infine, la tornata elettorale del 1974 portò in parlamento molti giovani parlamentari Democratici liberal, i cosiddetti Watergate Babies, eletti prevalentemente negli Stati del Nord del Paese, che contribuirono a completare la definitiva trasformazione del partito stesso: da forza conservatrice a trazione meridionale a partito progressista con un forte radicamento nelle aree urbane settentrionali e costiere.
Otto anni prima fu invece il presidente Lyndon Johnson a subire una pesante sconfitta nelle elezioni di medio termine del 1966. I Democratici riuscirono a conservare la maggioranza in entrambi i rami del Congresso ma persero 47 seggi alla Camera e 3 senatori. Nel mezzo della guerra in Vietnam e col presidente Johnson che aveva appena promulgato il Voting Rights Act che mise fine alla segregazione razziale, i Repubblicani riuscirono a rinvigorire la base elettorale conservatrice e ad aprire la strada non solo alla vittoria di Nixon di due anni più tardi ma anche a mettere finalmente radici nel Sud bianco che fino ad allora era stato – salvo sparute eccezioni – un solido bastione Democratico.
I Democratici possono allora aspettarsi una vittoria scontata tra un anno? Donald Trump subirà la doppia sconfitta che porterà alla paralisi definitiva della sua agenda legislativa e all’avvio delle procedure di impeachment? Non è affatto così semplice. Negli ultimi anni, infatti, una serie di fattori sembra porsi in contraddizione con l’appena citata evidenza storica.
Anzitutto, l’elettorato statunitense è sempre più polarizzato ed è quindi diminuita la quota di elettori indipendenti o indecisi che ciascun partito può mirare a conquistare a ogni tornata. Anche le caratteristiche della stessa base elettorale dei Democratici sembrano giocare a sfavore: il partito di Obama e dei Clinton attrae sempre più elettori giovani e residenti nelle grandi aree metropolitane. E’ un dato positivo che però cela un’importante controindicazione: gli elettori sotto i 30 anni tendono a impegnarsi per le elezioni presidenziali ma a disertare i voti di medio termine. Mentre la fascia di votanti sopra i 55 anni, a cui i sondaggi attribuiscono una netta preferenza per i Repubblicani, ha un livello di partecipazione elettorale ben più elevato e stabile.
Inoltre, questi elettori “urbani” fanno sì vincere i Democratici nelle città; ma allo stesso tempo le aree rurali – dove è presente un numero maggiore di collegi in rapporto alla popolazione – restano restano saldamente in mano repubblicana, soprattutto negli stati in cui questi hanno ridisegnato a proprio favore le circoscrizioni elettorali. Ragion per cui l’attuale vantaggio di 8 punti che i sondaggi certificano a livello nazionale per il Partito Democratico non è garanzia di successo nei singoli collegi. Infine, dei 34 seggi senatoriali che torneranno in palio il prossimo novembre, appena 9 sono attualmente occupati da senatori Repubblicani. E dei 7 che i sondaggi considerano “in bilico”, solo due sono Repubblicani. Dunque, i Democratici rischiano addirittura di veder ridursi la propria “truppa” di senatori, dato che si vota quasi esclusivamente in aree che già esprimono rappresentanti democratici.
In pratica, se la storia è contro la maggioranza repubblicana, le circostanze politiche contemporanee sembrerebbero invece a suo favore.