Quanto è largo l’Atlantico dopo il viaggio di Biden in Europa?

Quanto si sono avvicinati americani ed europei sui rapporti fra Cina e Russia dopo il G7 e il lungo circuito europeo di Joe Biden? Sui due lati dell’Atlantico una parte dei media ha enfatizzato le differenze, un’altra il ritrovato accordo, ma la realtà è sicuramente più complessa.

Dopo le intemperanze e iniziative imprevedibili del suo predecessore che avevano fortemente danneggiato l’immagine degli USA in Europa e alimentato versioni estreme della ricerca di un’autonomia strategica europea, in un certo senso a Biden bastava “non essere Trump”. Delle differenze indubbiamente permangono, ma è bene esaminarne la natura. Dopo l’abbandono della visione ottimista sull’evoluzione “occidentale” di Cina e Russia che entrambi (noi e gli americani) avevamo condiviso in un’epoca non troppo lontana, la velocità nella maturazione delle rispettive analisi non è stata la stessa; ciò è vero in particolare per quanto riguarda la Cina, ma in parte anche per la Russia. È del resto normale che una superpotenza globale come gli USA reagisca più rapidamente ai cambiamenti di scenario.

Ci sono anche altre ragioni legate a fattori strutturali. L’Europa dipende più degli USA dal commercio internazionale ed è quindi comprensibile che nel valutare i suoi interessi strategici sia maggiormente influenzata da considerazioni economiche. Infine gli USA sono una federazione, mentre l’Europa non lo è; le decisioni europee sono quindi condizionate dal consenso di paesi membri gelosi delle proprie prerogative, soprattutto in materia di politica internazionale. Non aiuta il fatto che la Germania, il paese più importante dell’UE, sia anche quello più restio per ragioni storiche ad assumere responsabilità internazionali e a inserire i suoi interessi economici in considerazione strategiche più vaste. Non aiuta nemmeno che l’altro paese chiave, la Francia, non si liberi mai completamente di residui neo-gollisti; a un Presidente francese in campagna elettorale non fa mai bene apparire troppo allineato sugli USA. Non aiutano infine i comprensibili timori europei sulla precarietà della scena politica americana. Anche se a ritmi diversi, la direzione di marcia delle rispettive analisi è tuttavia fondamentalmente la stessa. A riprova c’è il fatto che è bastato un cambio di passo e di tono da parte americana per realizzare, in Cornovaglia e a Bruxelles, un grado di unità che pochi credevano possibile poco tempo fa.

Il fondale dell’Oceano Atlantico

 

Bisogna dire che la situazione per quanto riguarda la Russia e la Cina è piuttosto diversa. Sulla prima, l’unità dell’Occidente, tranne qualche eccezione marginale, è fondamentalmente assicurata. Lo dimostra il linguaggio molto forte dei comunicati del G7 e della NATO. Ciò è dovuto a una maggiore percezione della minaccia russa da parte degli europei e al fatto che Vladimir Putin è obiettivamente più debole, condizionato da un’economia asfittica quasi interamente dipendente dalle esportazioni di idrocarburi; cosa che peraltro non gli impedisce di moltiplicare gli atti aggressivi che conosciamo. Resta il problema del Nord Stream 2; questione che è stata eccessivamente enfatizzata e anche mal gestita soprattutto da parte della Germania. Si è lasciato che diventasse un test dell’autonomia europea dalla Russia, quando in realtà il loro bisogno di esportare il gas in Europa è superiore al nostro bisogno di importarlo. La vera questione era quella del danno che questa infrastruttura può rappresentare per Ucraina e Polonia. La Germania avrebbe dovuto già da tempo, come finalmente sembra decisa a fare ora, formulare delle proposte adeguate senza lasciare che la questione assumesse la dimensione di un dramma transatlantico.

La questione cinese è invece molto più complicata e in questo caso la maturazione degli europei è stata più lenta rispetto agli USA e più frammentata al nostro interno. L’importanza degli incontri di questi giorni è che consacrano un’analisi sostanzialmente convergente. Malgrado il fascino delle tre magiche parole “cooperazione, competizione e rivalità” – incardinate nei documenti ufficiali –  essa non è tuttavia ancora una politica. Biden ha deciso di mettere al centro della sua azione la difesa dei valori democratici di fronte alle autocrazie. Questo è un buon punto di partenza per riunire alleati, ma non è ancora una strategia in cui necessariamente dovranno essere conciliati valori e interessi. Gli USA stanno ancora definendo, in un acceso dibattito interno, gli elementi di una strategia operativa e ciò spiega almeno in parte alcune reticenze europee. In sostanza vogliamo capire dove l’alleato ci sta portando.

Un punto ormai acquisito è che lo scenario cinese non ha nulla a che fare con quello che a suo tempo caratterizzò la guerra fredda. L’importanza economica dell’URSS era praticamente nulla, mentre la Cina è la seconda economia mondiale ormai fortemente interconnessa con i suoi vicini in Asia, con l’Europa e anche con gli USA. Inoltre la minaccia strategica costituita dalla Cina è del tutto diversa, anche sa da un certo punto di vista è più seria a causa del suo più grande potenziale economico, politico e in prospettiva anche militare. La sfida cinese non è ideologica, ma è piuttosto espressione di un acceso nazionalismo. Tutti i nazionalismi aggressivi alimentano presso l’opinione pubblica il ricordo delle “umiliazioni” subite per mano del potenziale nemico. Fu il caso della Germania guglielmina con la Francia; per la Cina è l’occidente del trattato di Nanchino (1842) e delle capitolazioni.  Infine quella che si costruì di fronte all’URSS era un’alleanza solida e coesa; nulla di ciò esiste almeno per il momento fra i potenziali alleati dell’America nell’Indo-Pacifico. Da tutto ciò si possono trarre alcune conclusioni provvisorie, che si possono anche dedurre dai lunghi e dettagliati comunicati dei tre incontri europei di Biden.

La prima è che nessuno, nemmeno negli USA pensa seriamente a un decoupling economico rispetto alla Cina. Non lo accetteremmo noi, lo accetterebbero ancor meno gli altri paesi asiatici; non sarebbe del resto possibile nemmeno per gli Stati Uniti. L’inutilità dei gesti dimostrativi di Trump è sufficiente a dimostrarlo. Malgrado un linguaggio ancora in alcuni casi protezionista adottato dall’amministrazione Biden, la globalizzazione sembra essere in buona salute.  A fronte di questo, cresce però su entrambe le rive dell’Atlantico la coscienza che bisogna far fronte a una sfida tecnologica. Era già in atto una reazione alle pratiche predatorie di aziende cinesi riguardo ad alcune tecnologie “critiche”. Ne abbiamo poi tutti preso atto durante la pandemia scoprendo dipendenze eccessivamente pericolose per alcuni materiali e tecnologie, soprattutto digitali. C’è stata infine la vicenda della partecipazione di Huawei alla costruzione delle reti 5G in Europa.

Il cambiamento di atteggiamento degli europei è visibile anche nei paesi come la Germania che sono più impegnati commercialmente con la Cina. Persino Angela Merkel ha dichiarato che l’accordo fra UE e Cina sugli investimenti (CAI – EU-China Comprehensive Agreement on Investment), che sembrava essere il coronamento della presidenza tedesca dell’UE dell’anno scorso, non sarà ratificato se la Cina non modificherà la sua pratica sul lavoro forzato (il che vuol dire mai). Fuori dal linguaggio diplomatico, significa che l’accordo peraltro già congelato dal Parlamento Europeo è definitivamente morto.

C’è un’altra ragione che rende inevitabile un certo grado di decoupling tecnologico. L’economia digitale sta diventando la colonna portante di tutta l’economia mondiale anche per quanto riguarda la risposta al cambiamento climatico. Essa ha bisogno urgente di essere regolata. Fino a tempi recenti le regole del gioco erano stabilite essenzialmente dall’Europa e dagli Stati Uniti, molto spesso con prospettive non coincidenti e fonti di numerose frizioni. Ora la Cina sta elaborando le sue proprie regole sul futuro di internet nella speranza di esportarle ai paesi emergenti e farne il nuovo standard mondiale. Esse sono basate sul controllo di internet da parte dello Stato. Il problema è che si tratta di un approccio non negoziabile perché basato su valori incompatibili con i nostri.

Un’intesa fra l’UE e gli USA diventa urgente e necessaria; l’idea è del resto chiaramente espressa nei comunicati finali degli incontri di Biden. Si profila quindi non solo la prospettiva di un decoupling tecnologico, ma anche la seria probabilità che venga esteso al funzionamento di internet, con conseguenze difficili da valutare per l’economia mondiale. La stessa Cina si è comunque messa su questa strada; da un lato promuovendo le sue proprie regole, dall’altra avviando una politica industriale deliberatamente tesa alla ricerca dell’autonomia tecnologica. La questione cruciale che si pone per la politica industriale e per la promozione delle regole è quindi se Europa e USA cercheranno l’autonomia ognuno per proprio conto, o se cercheranno di farlo insieme. Gli incontri degli ultimi giorni sono da questo punto di vista incoraggianti. Per la parte regolatoria, le conclusioni sono del resto largamente ispirate dalle posizioni europee.

La convergenza sulla dimensione strategica della questione cinese è più difficile. Malgrado qualche malumore da parte francese, il lungo e articolato comunicato finale del vertice NATO ne consacra l’ambizione di essere un’alleanza politico-militare di portata globale. Anche qui però c’è molto da fare. L’Europa è poco esposta nell’Indo-Pacifico e il suo peso militare nell’area è quasi inesistente. Del resto, la minaccia cinese non è (ancora?) aperta e diretta, ma si manifesta in una costante opera di attrito per testare la determinazione degli USA e dei loro alleati, in particolare rispetto a Taiwan ma più in generale nel Pacifico. La Cina è ormai massicciamente presente in Africa e la flotta cinese d’alto mare è anche di casa nell’oceano indiano e persino nel Mediterraneo.

Quella che si profila per gli Stati Uniti è soprattutto un’azione di contenimento volta a rassicurare gli alleati e a trasmettere ai cinesi un messaggio di determinazione. Poco possono fare gli europei da questo punto di vista, ma è interessante notare che Francia, Gran Bretagna e altri abbiano programmato delle missioni navali nell’area. L’Europa non potrà tuttavia esimersi da due scelte. La prima riguarda la Germania ma non solo e ci obbliga ad abbandonare l’illusione di tener separate considerazioni economiche e strategiche. La seconda ci spinge a impegnarci maggiormente anche sul piano politico con gli alleati degli USA nell’area.

L’inerzia europea, o piuttosto il desiderio di mantenere un certo grado di ambiguità, non sarà solo resa più difficile dalle pressioni americane. Paradossalmente è proprio la politica cinese a restringere il nostro margine di manovra. A cominciare dalla questione di Hong Kong fino alla repressione degli Uiguri nel Xinjiang ma anche su altri argomenti caldi, le autorità cinesi hanno ormai adottato la pratica di reagire rabbiosamente e con estrema violenza a ogni critica anche contro singole imprese e individui. Ogni nostra eventuale volontà di dialogo si trova così limitata e diventa una manifestazione di debolezza.

Il caso dell’Australia è emblematico, ma non è ormai il solo e riguarda anche l’Europa. Una simile reazione può essere considerata un errore tattico e strategico da parte di un paese che ha importanti problemi strutturali e che avrebbe invece interesse a dividere i potenziali avversari. La spiegazione più plausibile è nella logica del nazionalismo. Quello dell’URSS si nutriva di superiorità ideologica. Quello cinese è invece alimentato dalla convinzione dell’inevitabile declino dell’Occidente tutto, dal fatto che il tempo sta dalla loro parte e che non abbiamo più la forza morale prima ancora che politica ed economica di reggere il confronto. Altri dittatori fecero non troppo tempo fa lo stesso errore di apprezzamento sulla debolezza delle democrazie; sappiamo come andò a finire. Il problema per tutti noi è quindi evitare una simile conclusione.

Ciò ci porta alla necessità di dialogo, di cui l’incontro fra Biden e Putin, a Ginevra, è stato un buon esempio. È però importante intendersi sullo scopo di questo dialogo, che esisteva e forse esiste di nuovo con la Russia ma non ancora con la Cina. Il primo e più importante obiettivo è ristabilire alcune regole del gioco più o meno esplicite per evitare che inevitabili incidenti sfuggano di mano. Ciò implica anche qualche intesa sul controllo degli armamenti, ormai non solo nucleari ma anche relativi allo spazio e alla guerra cibernetica. Il secondo è di esplorare la possibilità di convergenze su temi di interesse comune. Il più importante è il riscaldamento climatico su cui almeno a parole tutti sembrano convenire. Ce ne sono altri; nel caso della Russia, i rapporti con l’Iran. Sempre nel caso della Russia, la speranza di far leva sulla ormai evidente debolezza di Putin per tenere sotto controllo il suo avvicinamento alla Cina.

C’è però un aspetto del dialogo futuro che è forse ancora più importante. In Cornovaglia e a Bruxelles europei e americani hanno solo stabilito un’agenda. Ora si tratta di riempirla con risultati concreti, ma con due vincoli di calendario che sembrano spingere in direzioni opposte. Da un lato le scadenze elettorali in Francia e in Germania che limitano la libertà di movimento di due paesi chiave. Dall’altro i tempi stretti della politica americana. Evitare di essere presi nella tenaglia è la principale sfida dei prossimi mesi.

 

 

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