La nuova età nucleare

Si è giocato a Roma, con la trattativa fra Washington e Teheran sulla questione nucleare, mediata dall’Oman, parte del futuro della proliferazione. L’Iran è un paese di soglia da parecchi anni. E oggi è indebolito dalla sconfitta sul campo, nel post 7 ottobre, dei suoi alleati regionali. E’ chiaro che se fosse in grado di produrre una testata atomica (non è così lontano dal poterlo fare, secondo il direttore dell’Aiea Rafael Grossi) scuoterebbe l’intero Medio Oriente, producendo una dinamica simile in Arabia Saudita e probabilmente in Turchia. Anche per questo Israele, se il negoziato fallisse, interverrà direttamente sui siti nucleari iraniani. Per ora Tel Aviv è stato fermato da Washington. Per ora.

Il sito nucleare di Natanz, in Iran, dopo un’esplosione nel 2020.

 

Il programma nucleare iraniano non ha solo questa importanza regionale evidente. Rientra in una tendenza più generale, analizzata nell’ultimo numero di Aspenia. Ci troviamo in effetti in una nuova età nucleare, sia civile (il nucleare come parte necessaria della transizione energetica) che militare (il nucleare come fattore essenziale di dissuasione).

 

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Lo status di Paese nucleare – per ora rimasto limitato a poche potenze, dichiarate e non – è percepito ormai come garanzia di sicurezza indispensabile da vari altri attori, almeno contro minacce “esistenziali”. Quello che vale per le grandi potenze del Consiglio di sicurezza (le potenze legittimamente nucleari ai sensi di un Trattato di non proliferazione che dimostra ormai tutta la sua età) vale a maggior ragione per Paesi di dimensioni medie e piccole, e non è certo solo il caso della Corea del Nord o del Pakistan.

Assieme al numero di Stati che aspirano ad avvicinarsi alla soglia nucleare, aumentano le testate delle potenze esistenti: secondo stime del Pentagono, riportate dal Financial Times, Pechino potrebbe raddoppiare il suo arsenale entro il 2030. E scadrà a breve l’estensione del New Start, ultimo pezzo di un vecchio sistema di controllo degli armamenti nucleari ormai rigettato da Vladimir Putin (che ha cessato di attuare il New Start un anno dopo l’invasione dell’Ucraina) ma discusso anche da Washington (in parte perché sono accordi che non includono le testate cinesi).

 

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Fra i costi della guerra in Ucraina ci sono anche gli incentivi alla proliferazione. Sia perché il paese che ha rinunciato in modo volontario alle armi atomiche – l’Ucraina appunto – è poi stato aggredito; sia perché le minacce nucleari di Mosca hanno inibito la risposta occidentale (la ben nota paura di favorire una escalation).

Funziona da incentivo alla proliferazione anche l’esistenza di dubbi sulla credibilità della protezione militare americana. In Asia, sono dubbi che potrebbero innescare reazioni in Giappone (con la rottura di un vero e proprio tabù sul nucleare), Corea del Sud e potenzialmente Taiwan. In Europa, si discute per ora di “deterrenza estesa”, che la Francia, col supporto di una Gran Bretagna tornata europea almeno nel settore difesa, dovrebbe in teoria garantire. Non solo: l’opzione nucleare torna ad essere considerata plausibile da voci politiche (minoritarie) di paesi come Germania o Polonia.

 

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Il dilemma per gli europei è ormai chiaro: o verrà ristabilito un clima di fiducia con gli Stati Uniti, che rafforzi la deterrenza garantita dalla NATO, o “europeizzare” le capacità nucleari esistenti diventerà indispensabile per evitare una proliferazione più estesa. Comunque si voglia chiamarla, siamo in un’era di scelte difficili e costose.

 

 


*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica il 23 aprile.

 

 

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