Myanmar: un tassello dello scontro sino-americano

Il sisma che ha colpito il Myanmar il 28 marzo scorso, un terremoto di magnitudo 7.7 le cui scosse sono arrivate sino a Bangkok e si sono avvertite anche in Cina e in Vietnam, sta rimescolando le carte della guerra civile quadriennale che ne è la tragica cornice. In nome dell’emergenza umanitaria, è stata dichiarata una tregua dalle forze della resistenza (sia quelle del Governo clandestino di unità nazionale sia quelle legate ad alcuni milizie etniche) e, la notte del 2 aprile, anche dal governo golpista di Naypyidaw, su pressioni cinesi.

In questo articolo, deline perciò lo scenario birmano attraverso le aspettative e gli interessi della Cina: con il golpe del 2021 infatti si sono bloccati quasi tutti i progetti previsti in loco da Pechino all’interno della strategia della Belt and Road Initiative, che il gigante asiatico ha tutta la convenienza a riavviare.

La nuova guerra commerciale con gli Stati Uniti e il possibile riemergere di tensioni legate a Taiwan, comunque, non sembrano trovare i cinesi impreparati. Come ha scritto su Foreign Affairs Yun Sun, direttrice del China Program al Stimson Center di Washington, Pechino si aspettava che l’amministrazione Trump avrebbe lanciato “politiche dure nei confronti della Cina, intensificando la guerra commerciale, quella tecnologica e il confronto tra i due Paesi su Taiwan”. Si è dunque preparata. E se, come aggiunge la politologa, la priorità della Repubblica Popolare Cinese “è semplicemente quella di superare la tempesta” globale, uno dei tasselli di maggior difficoltà locali riguarda però un vicino di casa: il Myanmar, un Paese che il 1° febbraio scorso è entrato nel quinto anno di guerra civile da quando, nel 2021, un golpe militare ha esautorato l’esecutivo civile guidato da Aung San Suu Kyi.

 

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Pur sostenendo la giunta golpista e rifornendo i suoi arsenali, la Cina ha in realtà sempre mantenuto una posizione tiepida e ondivaga nel suo appoggio, consentendo, seppur non ufficialmente, che armamenti e merci cinesi filtrassero attraverso le sue frontiere meridionali per alimentare anche alcuni gruppi di resistenza. Resistenza combattuta da un governo clandestino alleato ad alcune Organizzazioni Etniche Armate (Eao): eserciti “etnici” – Shan, Chin, Kachin o Karen per citare i più noti – che sin dalla proclamazione dell’Unione birmana nel 1948 hanno contestato e combattuto il centralismo bamar, la comunità maggioritaria del Paese. Gli alti gradi delle forze armate birmane, il Tatmadaw, sono infatti quasi tutti bamar, e lo stesso Tatmadaw fu fondato da Aung San, padre di Aung San Suu Kyi. Bamar anch’essi. Se inizialmente era formato da volontari, oggi, con l’introduzione della coscrizione obbligatoria, la sua composizione etnica è più variegata. Tuttavia, l’esercito rimane tradizionalmente percepito come un’istituzione bamar (la contestazione e gli scontri armati contro il centralismo bamar risalgono a subito dopo l’indipendenza del 1948 dalla Gran Bretagna).

I territori controllati dalle diverse fazioni in Myanmar

 

Questa politica dei due forni da parte della Cina ha spesso indispettito la giunta militare, spingendola a organizzare manifestazioni di protesta davanti alla rappresentanza diplomatica cinese a Yangon. Pechino, in effetti, non era soddisfatta del golpe: la Cina, sempre molto pragmatica nelle sue relazioni esterne, già faceva infatti ottimi affari con il governo di Aung San Suu Kyi. La presa del potere da parte dei militari invece ha precipitato il Paese nel caos, mettendo a rischio i commerci e bloccando i progetti di sviluppo, tra cui uno in particolare: la Zona economica speciale di Kyaukphyu (KPSEZ), nello Stato occidentale del Rakhine, dove è in costruzione un porto di acque profonde per l’attracco di petroliere e portacontainer.

Il progetto, i cui primi accordi risalgono al 2005 per essere poi stati confermati anche dal governo Suu Kyi, prevede tra l’altro una ferrovia veloce per collegare Kunming, nello Yunnan cinese, al porto di Kyaukphyu, nel Rakhine, passando dallo snodo frontaliero costituito dalle due città gemelle di Ruili (Cina) e Muse (Myanmar). In parallelo ai 1.700 km della ferrovia, corrono anche un oleodotto e un gasdotto. L’investimento cinese è del 70% del totale. Costi in continua lievitazione. Perché è così importante?

Un trasportatore sulla riviera di Kyaukphyu.

 

È un progetto che consentirebbe di trasportare merci, persone ed energia dal Golfo del Bengala a Kunming, nella provincia meridionale della Cina, e viceversa. Ciò non avrebbe solo un impatto locale molto importante, favorendo l’interscambio commerciale di una provincia di cinquanta milioni di abitanti, come lo Yunnan, oggi isolata rispetto alle direttrici dello sviluppo cinese. Avrebbe anche un impatto globale: traccia una linea dalla Cina all’Oceano Indiano attraverso il Myanmar che eviterebbe all’industria e al commercio cinese di dover dipendere dall’attraversamento del piccolo Stretto di Malacca, un imbuto (nel cui punto più nevralgico si trova Singapore) facilmente controllabile e sigillabile in caso di conflitto.

I lavori al porto di Kyaukphyu sono iniziati, ma procedono a rilento. Sebbene gli oleodotti e i gasdotti siano stati già installati in Myanmar, rimangono a rischio di sabotaggio. Come dicevamo, il progetto include anche una ferrovia veloce per collegare Kunming al porto di Kyaukphyu, passando attraverso Ruili e Muse. Il tratto ferroviario in territorio cinese è terminato ma non ancora aperto al traffico, mentre quello in Myanmar è fermo.

È un progetto cui la Cina tiene così tanto che sta nel contempo cercando di aprirsi una via alternativa allo Stretto di Malacca anche nella parte più sottile della Tailandia, con l’idea di creare un collegamento terrestre tra due porti tailandesi, uno sul Mar Cinese Meridionale e l’altro sul Mar delle Andamane. Progetto anch’esso a rilento.

Ma se la Thailandia frena, sia per l’impegno finanziario sia per motivi politici (circoscrivere l’espansione di Pechino), il progetto birmano è per via della guerra seriamente compromesso. Se i cinesi possono consolidare il prolungamento della ferrovia veloce da Kunming a Ruili (tratto non ancora aperto al traffico) e possono insistere sui lavori al porto di Kyaukphyu, quelli per la ferrovia che dovrebbe proseguire da Muse – città specchio di Ruili in suolo birmano – restano bloccati. La frontiera Muse-Ruili è chiusa e la stessa città di Muse è circondata da diversi gruppi armati dell’opposizione. Solo uno fra loro – la Myanmar National Democratic Alliance Army (MNDAA) – ha siglato un cessate il fuoco, su spinta cinese, con la giunta militare. Tutti gli altri hanno fatto orecchie da mercante. Per comprendere meglio, bisogna fare un passo indietro.

Molte cose sul fronte bellico interno e sul piano politico internazionale sono cambiate quando, nell’ottobre del 2023, la cosiddetta Fratellanza a tre (Three Brotherhood Alliance), formata da tre fazioni armate (la già citata MNDAA con l’AA–Arakan Army e il TNLA–Ta’ang National Liberation Army), ha iniziato un fortunato operativo militare congiunto chiamato Operazione 1027. Le tre forze coalizzate hanno iniziato a guadagnare terreno nello Stato Shan, che a Nord confina con la Cina, bloccando di fatto le strade di accesso da e alla Repubblica Popolare.

 

Per un po’ Pechino non si è mossa, limitandosi a tentare una mediazione, più volte fallita, tra i tre gruppi e la giunta militare di Naypyidaw. Ma non è rimasta alla finestra troppo a lungo. Ha aspettato poco meno di un anno per vedere da che parte si sarebbe inclinata la bilancia, poi, nell’agosto scorso, ha rotto gli indugi. Prima ha formalmente riufficializzato il suo appoggio alla giunta birmana, inviando in Myanmar addirittura il plenipotenziario Wang Yi, direttore dell’Ufficio della Commissione Centrale per gli affari esteri del Partito Comunista. Poi, in novembre, ha invitato in Cina per la prima volta dal golpe lo stesso Min Aung Hlaing, capo del governo e capo dell’esercito: non a Pechino, ma a Kunming, e a un summit secondario ma non privo di importanza per il leader golpista, che ne ha subito fatto una medaglia al valore. Infine, la Repubblica Popolare ha cominciato a minacciare i gruppi tradizionalmente più sensibili alle pressioni cinesi. Alla fine, uno di questi, l’MNDAA, ha ceduto. Una vittoria relativa, come abbiamo sottolineato, ma che apre le porte a ulteriori pressioni al fine di perseguire il progetto Kunming-Muse-Kyaukphyu. I problemi, però, non sono solo alla frontiera Nord.

Nel Rakhine, l’Arakan Army, una formazione fortemente identitaria, secessionista e non meno violenta, ha conquistato 14 delle 17 municipalità (township) dello Stato e mira a stringere d’assedio la capitale Sittwe, che dista un pugno di miglia marittime da Kyaukphyu. Se la capitale resiste è finora perché viene protetta dalla marina, mentre l’Arakan Army non possiede navi. Ma se la situazione è critica nello Stato Shan e nel Rakhine, non lo è meno nelle province del centro, teoricamente sotto il controllo della giunta golpista ma teatro di continue battaglie. Ferrovia e condotte energetiche devono passare per Mandalay, seconda città del Paese seriamente minacciata dall’opposizione armata. I sabotaggi non mancano.

Se le ultime valutazioni sul controllo effettivo del Myanmar sono esatte, i golpisti controllerebbero infatti meno di un quarto del Paese. Un lavoro di ricerca della BBC a fine 2024 valutava che la giunta avesse all’epoca il pieno controllo del solo 21% del territorio nazionale, contro il 42% in mano all’opposizione. Le altre aree restano contese.

 

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Nel tentativo di aggiustare quel che al momento appare decisamente inaggiustabile, i cinesi hanno anche fatto forti pressioni sulla giunta militare affinché si tengano delle elezioni. Ma lo stesso premier birmano ha dovuto ammettere che il censimento appena concluso – non sappiamo con quanta precisione – sarebbe stato realizzato solo in 145 township su 330, sostanzialmente quelle dell’area abitata prevalentemente dai Bamar. Non di meno, Min Aung Hlaing ha promesso che le elezioni si svolgeranno entro la fine dell’anno o in gennaio.

Il regime ha anche previsto l’arrivo di osservatori esterni (russi e bielorussi). Ma una dichiarazione congiunta dell’Istituto internazionale per la democrazia e l’assistenza elettorale (International IDEA), di Asian Network for Free Elections (ANFREL) e del Club di Madrid hanno liquidato le consultazioni guidate dalla giunta come l’obiettivo per consolidare il regime. Non certo quello di ripristinare la democrazia.

 

 

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