Il volto euforico di Viktor Orbán la sera del 3 aprile davanti ai suoi sostenitori tradisce la sincera sorpresa dell’ormai eterno primo ministro ungherese. Nessuno, in Ungheria, si attendeva un distacco di venti punti percentuali (54 a 34) tra Fidesz e la variegata coalizione di opposizione riunita intorno al candidato indipendente Péter Márki-Zay. Il partito di governo non solo ottiene nuovamente i due terzi dei seggi ma anche il miglior risultato proporzionale di sempre, con oltre 3 milioni di voti sui 5,6 milioni espressi.
Alcuni dati, fra i tanti disponibili, restituiscono le dimensioni del trionfo: 1) la lista comune dei sei partiti di opposizione ha prevalso su quella governativa in appena 42 dei 3155 comuni ungheresi; 2) l’opposizione ha vinto 19 dei 106 collegi uninominali – appena uno in più rispetto al 2018 – ed è riuscita a strappare a Fidesz due soli collegi su 88 fuori Budapest; 3) nella stessa Budapest, la più grande isola di dissenso contro Orbán, i partiti di opposizione hanno prevalso di misura nel voto proporzionale e Fidesz ha raccolto oltre il 40% dei consensi, cui va sommato quello del movimento di estrema destra “Mi Hazánk”, nato da una costola di Jobbik e cresciuto fino a raggiungere la soglia per entrare in parlamento; 4) il candidato dell’opposizione Péter Márki-Zay, è stato sonoramente sconfitto da un “barone” governativo nel collegio che include la sua città.
Pochi giorni prima del voto, gli esperti collocavano il vantaggio di Fidesz in una forbice di pochi pochi percentuali e il think-tank governativo Századvég convocava riunioni di emergenza a porte chiuse, mentre gli attivisti dell’opposizione parlavano di vittoria a portata di mano. Lo scollamento tra la realtà virtuale e il mondo reale, fra la Budapest „da bere” e il resto del paese, è emerso in tutta la sua brutalità la sera del 3 aprile, costringendo l’opposizione e gli analisti a una riflessione profonda sulle cause dell’ennesima disfatta e sulle prospettive del paese.
Partiamo allora dal trionfatore, Viktor Orbán, e dal partito di governo. Il segreto del successo di Fidesz, alla quarta vittoria consecutiva e una forbice di voti popolari compresa fra il 42 e il 54% alle elezioni politiche dal 2002 in avanti, sta in una sapiente combinazioni di fattori logistici, sociali e psicologici. Il partito di governo utilizza i media pubblici come arma di propaganda, disinformazione e discredito degli avversari mentre dirige informalmente o “tempera” quelli privati, inclusi i pochi (come la televisione generalista RTL) ancora di proprietà straniera. Questo garantisce a Fidesz un controllo pressochè totale sulla narrazione politica interna. A differenza dell’ultimo decennio, Orbán ha potuto svolgere campagna elettorale senza che un solo giornalista o reporter “sgradito” potesse anche solo avvicinarlo per un istante. Perfino i suoi incontri pubblici con gli elettori venivano comunicati solo alla ristretta cerchia degli invitati per isolare il primo ministro da ogni possibile contestazione o approccio sgradito.
Il sistema dell’informazione ha svolto un ruolo cruciale soprattutto dopo che, dalla fine di febbraio, l’aggressione russa all’Ucraina aveva stravolto ritmi e temi della campagna elettorale ungherese. Schiacciato da anni su posizioni filo-russe criticate dall’opposizione e dai governi occidentali, Orbán aveva molto da temere da un conflitto armato alle porte del suo paese per l’afflusso di rifugiati ma soprattutto per la posizione ungherese di paese NATO politicamente simpatetico con Mosca. Il primo ministro si è allora reinventato nel ruolo di colomba, predicando pace (nei termini graditi a Mosca, ovvero criticando l’Occidente e la leadership ucraina per aver “provocato” il conflitto) e difendendo gli accordi speciali con Gazprom, garanzia di tariffe energetiche contenute. Pace e bollette, dunque: un binomio che ha avuto un impatto straordinario sugli elettori, in particolare nelle campagne, fra gli anziani e fra ceti meno abbienti e istruiti. Orbán ha blandito il desiderio di sicurezza dell’Ungheria profonda, un desiderio sottovalutato dall’opposizione, impegnata a dimostrare la sua compatibilità con i valori euroatlantici.
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Cosa dire dell’opposizione? Mai i movimenti che si opponevano a Orbán erano rimasti sotto al 35% e ai due milioni di voti. Si tratta del risultato peggiore dal 2010, ottenuto paradossalmente nelle condizioni più favorevoli, grazie alle candidature unitarie nei singoli collegi e alla lista comune nel proporzionale. Gli osservatori notano che oltre la metà del milione di voti persi si deve alla frantumazione di Jobbik, l’ex partito di destra radicale spostatosi verso un ipotetico “centro popolar-conservatore”, senza però riuscire a convincere i propri elettori, che sono migrati verso la destra estrema di Mi Hazánko o verso la stessa Fidesz. Altri accusano il partito Coalizione Democratica (DK) dell’ex premier socialista Ferenc Gyurcsány, che ha ottenuto 16 seggi diventando il „maggior” gruppo di opposizione, di aver cannibalizzato la sinistra ungherese, svolgendo una campagna dedita esclusivamente alla promozione dei propri candidati a scapito della coalizione. Il movimento giovanile Momentum entra in parlamento con una decina di rappresentanti ma perde l’occasione storica di trasformarsi in un partito di massa.
Il candidato dell’opposizione, Péter Márki-Zay, non era dotato né dell’acume politico né delle abilità tattiche necessarie a sfidare Orbán. Nelle ultime settimane Márki-Zay ha rincorso il Primo Ministro su tre temi rivelatisi irrilevanti agli occhi dell’elettorato: la corruzione, vista dall’ungherese medio come un fenomeno sistemico e inevitabile; i valori cristiani, che il pio cattolico Márki-Zay incarna in modo credibile rispetto a Orbán, ma senza che questo sposti un solo voto conservatore verso l’opposizione; la contrapposizione valoriale Est (Russia)/Fidesz contro Ovest/opposizione democratica, rigettata apertamente dalla grande maggioranza dell’elettorato in senso antioccidentale.
L’opposizione politico-parlamentare condotta al sistema di Orbán giunge oggi, se non al capolinea, a un nuovo e drammatico punto di svolta. I partiti che dal 2010 languono in parlamento continuano a godere di fondi pubblici e infrastrutture minime, senza tuttavia alcuna possibilità di incidere sulla politica nazionale. Vincitore a sorpresa delle primarie nell’autunno 2021 grazie a uno slancio dal basso promosso dal suo movimento MMM (Movimento per l’Ungheria di tutti), Márki-Zay aveva cercato di allargare la coalizione a una “lista del presidente” che raccogliesse i frutti della mobilitazione popolare delle primarie.
I partiti di opposizione, già impegnati a spartirsi collegi, posti in lista e posizioni di sottogoverno, hanno seccamente e unitariamente rifiutato la proposta. Quello è stato il momento in cui l’establishment post-comunista che ancora domina il campo dell’opposizione si è affermato sulla società civile in base alla logica del profitto minimo garantito. Da un punto di vista strategico, l’opposizione ha perso le elezioni nel momento stesso in cui ha costretto l’indipendente Márki-Zay al ruolo impossibile di portavoce di un’ammucchiata elettorale unita solo dall’odio verso Orbán e dal desiderio di rivincita.
Un’ultima considerazione sul senso del voto del 3 aprile. Orbán non è più, da molti anni, un “normale” primo ministro e Fidesz non è più semplicemente uno dei partiti in campo. Nonostante abbia poche decine di migliaia di iscritti in un paese di dieci milioni di abitanti, Fidesz ha acquisito uno straordinario controllo del territorio e delle dinamiche relazionali locali.
Il partito-stato viene ormai largamente idenfiticato dagli elettori estranei alla “bolla” intellettuale e professionale budapestina come l’unico soggetto politico in grado di rappresentare i loro interessi o, ancor meglio, la loro identità (nazionale, locale, religiosa, professionale). Nell’ultima settimana molti dei ventimila attivisti dell’opposizione che affollavano, come scrutatori o rappresentanti di lista tutte le sezioni elettorali per evitare brogli, hanno pubblicato in rete le impressioni ricavate da un’intera giornata trascorsa negli angoli più remoti del paese. Si tratta di una lettura dolorosamente utile e necessaria per comprendere la chiave del fallimento sociale dell’autorappresentazione liberale.
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Gli attivisti dell’opposizione, catapultati nei villaggi e nelle cittadine dell’Ungheria profonda con il kit dello scrutatore e l’applicazione digitale con cui avviare il “conteggio parallelo” dei voti rispetto a quello del Ministero dell’Interno, sono accolti dai presidenti di seggio e dagli altri scrutatori – generalmente ex insegnanti, attivisti culturali o piccoli imprenditori, dunque coloro che contano nella comunità locale – con un misto di diffidenza politica e spontaneo calore umano. Il voto è anche una festa e la sera prima del voto le donne del paese hanno preparato quintali di panini, frittelle, carne arrosto da consumare insieme, come sempre da decenni, al termine dello spoglio dei voti. Dopo qualche ora gli “alieni” giunti da Budapest o dai ricchi dintorni diventano parte di un microcosmo e vengono messi al corrente, con dovizia di particolari piccanti, di pubbliche virtù e vizi privati di un corpo elettorale di cui essi non conoscono nulla. In molti resoconti riecheggia lo stupore dei populisti russi di fine Ottocento per le condizioni materiali e psicofisiche della popolazione rurale. La stragrande maggioranza degli elettori di etnia rom cerca ansiosamente il simbolo del “partito” e ripete sorridendo “Csak a Fidesz” (Solo Fidesz), uno degli slogan preferiti. Gli anziani si trascinano a fatica al seggio e bisogna aiutarli a cercare nella scheda il simbolo preferito. Non pochi elettori sono funzionalmente analfabeti, incapaci di leggere un testo (come quello dei referendum sul cambio di sesso) diverso dalla propria firma. Molti cittadini appaiono trasandati o in condizioni di salute visibilmente precarie.
Dalle 5 di mattina a mezzanotte i ventimila attivisti dell’opposizione inviati a controllare la regolarità del voto ed evitare brogli si scontrano con una realtà ancora più deprimente di quanto immaginato. Non vi sono stati brogli significativi, come testimonia anche il rapporto preliminare redatto dai numerosi osservatori OSCE. Nella maggior parte delle sezioni, anzi, non vi è stato alcun broglio o non sono state osservate irregolarità procedurali di alcun tipo. E’ il tipo di sistema messo in piedi da Orbán a generare ormai in automatico un simile risultato elettorale e rendere impossibile ogni costruzione politica alternativa dotata non solo di risorse ma anche di una plausibilità ideologica.
Al termine della conta dei voti, mentre nelle aule scolastiche spuntano vino, palinka e quantità di cibarie sufficienti a sfamare un reggimento, gli attivisti dell’opposizione inviano sconsolati i dati sull’applicazione e pensano che in questo sistema, con le regole di questo sistema e nel contesto sociale, psicologico, economico determinato da questo sistema, la vittoria di Orbán non sia evitabile.
Arrivano alla conclusione che, in assenza di un cataclisma esterno dovuto a eventi e circostanze che la narrazione interna non possa controllare, il risultato di qualunque competizione elettorale nel regno di Viktor Orbán sia sostanzialmente scritto in partenza.