Con il lancio del piano della Commissione europea denominato ReArm Europe/Readiness 2030 lo scorso marzo, l’Europa ha intrapreso un passo senza precedenti nella propria storia di difesa collettiva. In questo articolo riassumeremo prima brevemente i punti cardine del piano; discuteremo poi alcune critiche sollevate dagli osservatori, iniziando dalla questione più dibattuta: quanto è necessario spendere?
Alcuni sostengono che l’Europa spende già abbastanza, rendendo superflui ulteriori aumenti di bilancio; altri sottolineano la necessità di un migliore coordinamento della spesa, più che di un suo mero incremento. Infine, alcuni osservatori sono scettici sugli strumenti previsti: più debito, il che limiterebbe i margini di manovra di alcuni Stati membri. Nel quarto paragrafo metteremo in evidenza il punto sostanziale: la vera sfida è costituita dalle difficoltà di sviluppare capacità di difesa efficaci in tempi e costi sostenibili. Termineremo con alcune conclusioni sul contesto strategico, alla luce della crescente minaccia russa e dell’ambiguità americana.
Iniziamo dal quadro generale. Nel marzo 2025, la Commissione Europea ha presentato il Libro Bianco per la Difesa, accompagnato dal ReArm Europe Plan, successivamente ribattezzato Readiness 2030. Questo piano si basa su cinque pilastri strategici volti a rafforzare la difesa comune. Il primo pilastro prevede la creazione di un fondo europeo da 150 miliardi di euro per finanziare l’acquisto congiunto di sistemi d’arma sviluppati in Europa, incentivando l’industria della difesa continentale, mentre il secondo pilastro sospende temporaneamente le clausole del Patto di Stabilità e di Crescita, consentendo maggiore flessibilità fiscale per il periodo 2025–2028. Secondo le stime della Commissione, questa misura potrebbe generare investimenti in difesa per 650 miliardi di euro. Gli altri pilastri mirano a rafforzare il ruolo della Banca europea per gli Investimenti nel settore della difesa, favorire l’ingresso di capitali privati e riorientare fondi esistenti per affrontare crisi improvvise. Il piano risponde a un contesto preciso: la difesa europea è stata penalizzata da decenni di tagli ai bilanci militari post guerra fredda, da operazioni fuori-area che hanno drenato risorse verso priorità secondarie e da politiche ESG (Environmental, Social, Governance) che hanno reso il settore meno attraente per gli investitori privati. Il piano è quindi una svolta politica, poiché l’UE si assume la responsabilità di coordinare un riarmo strutturato, rompendo il tabù di una difesa comune finanziata collettivamente. Va ricordato che, fin dagli albori, l’Unione (prima Comunità) Europea era preclusa dall’operare nella difesa.
QUANTO SPENDERE? UNA QUESTIONE DI PROSPETTIVA. Una prima obiezione al piano Readiness 2030 è che ulteriori spese in difesa sarebbero superflue. Alcuni osservatori sostengono infatti che l’Europa spenda già più della Russia, principale minaccia potenziale, e che aumentare i bilanci militari non sia quindi necessario. Questa tesi presenta tre problemi: fattuale, logico e militare.
Vediamo il primo, quello fattuale. Contrariamente a quanto spesso si afferma, la spesa europea non supera di gran lunga quella russa: secondo i dati dell’International Institute for Strategic Studies, nel 2024 l’UE ha speso circa 325 miliardi di euro per la difesa, mentre i paesi europei della NATO hanno raggiunto 430 miliardi. La Russia, invece, ha speso circa 140 miliardi di euro. Tuttavia, parametrando questi valori a parità di potere d’acquisto (PPA), per riflettere i più bassi costi di produzione in Russia, la spesa russa sale a circa 460 miliardi, superando così quella europea combinata. Le stime sulla spesa russa sono complicate dalla conversione in dollari e dall’opacità dei bilanci di Mosca. Inoltre, a differenza di altri settori, nel campo della difesa non c’è un prezzo di mercato e dunque queste stime rimangono approssimative. La tesi per cui non sarebbe necessario spendere di più, in quanto già spenderemmo nettamente più della Russia, è però messa in discussione – come si è appena visto – da uno dei più prestigiosi centri studi al mondo.
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Affrontiamo ora il problema logico. Il livello della propria spesa in difesa non può essere determinato solo in funzione di quella avversaria. La difesa, come dice la parola stessa, serve a difendere e la spesa deve essere logicamente parametrata al valore di ciò che si intende proteggere. Facciamo un semplice esempio: quando dovremmo spendere per proteggerci da un malintenzionato armato con un taglierino da 10 euro? Chi sostiene che sia necessario pareggiare la spesa di Mosca sostiene implicitamente che basti eguagliare la spesa del malintenzionato. Questa è una chiara fallacia logica. La vita di qualsiasi persona vale infatti più di 10 euro. E dunque qualsiasi persona ragionevole spenderebbe infinitamente di più per proteggersi. Tornando al discorso della spesa europea, il livello adeguato è rappresentato dal valore che affidiamo a ciò che vogliamo proteggere e che la Russia di Putin minaccia: la stabilità in Europa, l’integrazione europea, la democrazia e la libertà. Si capisce in fretta che se diamo molta importanza a ciò che vogliamo proteggere allora dovremmo spendere molto; viceversa, se diamo poca importanza a ciò che dobbiamo difendere, allora dovremmo spendere meno.
C’è infine la questione militare. Comparare la spesa di un attore aggressivo (Russia) con quella di un attore difensivo (Europa) è analiticamente problematico. Un esempio stilizzato chiarisce il punto: due Stati, A (attaccante) e D (difensore), hanno un confine di 10 km e un budget di 10 euro ciascuno. Ogni battaglione costa 1 euro e copre 1 km. Se entrambi distribuiscono i 10 battaglioni lungo i 10 km di confine, nessuno dei due ha un apparente vantaggio militare. Ma se A concentra tutte le sue forze in un solo punto, ottiene un vantaggio numerico di 10:1 che può sfruttare per una vittoria devastante. Per contrastarlo, D deve potenzialmente triplicare le sue forze, spendendo 30 euro, così da poter rapidamente spostare truppe dalle vicinanze del punto di attacco e ottenere un rapporto di forze più favorevole, almeno pari a 10:9 (se l’attacco avviene al km 5, dove ci sono 3 battaglioni, potrà facilmente spostare anche i tre preposti al km 4 e al km 6). In altre parole, proprio perché si deve difendere, un attore può essere obbligato a spendere molto di più di chi lo vuole attaccare.
In un contesto reale, il rapporto tra costi di attacco e difesa è ancora più sbilanciato dell’esempio stilizzato: intercettare attacchi missilistici o attività sottomarine può richiedere investimenti pari a 10, 100 o anche 1000 volte quelli di chi attacca. D’altronde, in Europa è necessario difendere centinaia di siti politicamente rilevanti, infrastrutture critiche, basi militari, obiettivi vulnerabili. Una difesa comprensiva, che fornisca sufficiente protezione fisica, è necessariamente costosa.
COME SPENDERE? L’ETERNA SFIDA DEL COORDINAMENTO. La seconda obiezione al piano di riarmo europeo riguarda l’assenza di una “cabina di regia” centralizzata. Senza un maggiore coordinamento, secondo alcuni, si rischia una frammentazione degli sforzi, con sprechi e sovrapposizioni tra i programmi nazionali. Questa critica è fondata nelle premesse, meno nelle conclusioni. È vero che Readiness 2030 non introduce nuovi meccanismi di coordinamento. Tuttavia, strutture come l’Agenzia europea per la Difesa e la NATO esistono già, anche se la loro influenza in questi processi è limitata dalla sovranità nazionale. Per risolvere la questione, non serve un piano diverso: sarebbe cambiare i trattati – processo lungo e difficile.
Va aggiunto che il coordinamento può produrre anche effetti perversi: da una parte può rallentare il processo decisionale e portare a decisioni annacquate; dall’altra, in alcuni ambiti – quali l’innovazione nella difesa, la pianificazione strategica e le operazioni militari – l’autonomia decisionale porta spesso a risultati superiori. Nel cercare di favorire risparmi ed efficienza, è dunque importante non penalizzare l’innovazione e l’efficacia. Non è un caso che negli Stati Uniti siano stati enti relativamente autonomi a promuovere innovazioni e rivoluzioni, come la DARPA, l’agenzia di ricerca del Pentagono, che non solo gode di una propria indipendenza, ma la garantisce anche ai suoi dipendenti; oppure come Skunk Works, la divisione di Lockheed Martin dove sono stati sviluppati modelli avveniristici.
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Del resto, in alcuni casi, è stata proprio la competizione tra diversi servizi militari – piuttosto che la centralizzazione – a favorire rivoluzioni come lo sviluppo dei sottomarini balistici nucleari.
La sfida per l’Europa consiste nel disegnare un sistema che sia in grado di favorire l’efficienza, preservando quella autonomia operativa che permette l’innovazione diffusa. Di sicuro su questo ambito sarà necessario fare dei passi avanti.
CHI PAGA? Il DILEMMA DELL’INDEBITAMENTO. La terza obiezione ai piani della Commissione europea riguarda l’architettura finanziaria su cui si basa il piano, poggiata sull’indebitamento comune e sulla flessibilità fiscale. Sono in proposito necessarie due considerazioni. Da una parte, questo approccio rischia di penalizzare paesi con bilanci già gravati, come l’Italia (con un rapporto debito/PIL al 140%), la Grecia e la Francia, che potrebbero non avere lo spazio fiscale per aumentare la spesa senza compromettere la sostenibilità finanziaria. Al tempo stesso, Stati con finanze più solide, come Germania o paesi nordici, potrebbero essere riluttanti a condividere rischi fiscali con nazioni percepite come meno virtuose.
L’Europa meridionale fa storicamente fatica a conciliare gli obiettivi di difesa con le pressioni per il consolidamento fiscale. Tuttavia, il piano introduce strumenti di perequazione, come il fondo da 150 miliardi euro, che consentono di calibrare i contributi in base alla capacità economica. L’uso del debito comune richiama il precedente di NextGenerationEU, che ha finanziato la ripresa post pandemica, un modello ben noto in Italia.
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Nell’insieme, questi dibattiti mostrano in ogni caso la vulnerabilità dell’Europa e della sua difesa: se alcuni dei paesi più ricchi del mondo non riescono ad accettare un semplice trasferimento di risorse da alcune voci di bilancio alla difesa, avversari e nemici possono facilmente immaginare quanto poco questi stessi paesi sarebbero disposti a tollerare perdite in battaglia. Il risvolto è finanziario, le implicazioni sono sulla deterrenza, ma la questione è profondamente politica e culturale.
COSTRUIRE CAPACITÀ, UNA SFIDA PIÙ PROFONDA DELLA SPESA. Al di là delle risorse finanziarie, la vera sfida per il piano Readiness 2030 è trasformare gli investimenti in capacità militari reali ed efficaci. Questo processo richiede tempo, competenze e un ecosistema industriale solido.
Un primo punto riguarda le capacità industriali e tecnologiche: in molti settori chiave – come semiconduttori avanzati, propulsione ipersonica, intelligenza artificiale applicata alla difesa o sistemi anti-access/area denial – l’Europa è fortemente dipendente da attori esterni. In alcuni casi, come nella produzione di munizioni, la capacità produttiva è insufficiente persino per sostenere l’attuale supporto all’Ucraina. Il riarmo richiede dunque un massiccio sforzo industriale, ma anche strategico: è necessario identificare priorità tecnologiche, costruire catene di approvvigionamento sicure e investire in ricerca a lungo termine.
La dimensione umana, poi, rappresenta un ostacolo spesso sottovalutato. L’età media delle forze armate europee è in crescita, mentre il reclutamento langue. Le carenze di personale qualificato riguardano non solo i ranghi militari, ma anche tecnici, ingegneri, programmatori e analisti. La difesa del futuro sarà ad alta intensità tecnologica: la disponibilità di capitale umano adeguato è cruciale quanto quella di armamenti.
Infine, è importante sottolineare che lo sviluppo delle capacità militari richiede cicli lunghi e coerenza strategica. I tagli post-guerra fredda hanno disarticolato molte filiere industriali, spesso rendendo impossibile ripartire rapidamente. Alcuni programmi – come i cacciabombardieri o i sottomarini— richiedono 20-25 anni dalla progettazione alla piena operatività. Questo significa che le decisioni prese oggi produrranno effetti solo nel prossimo decennio: la sfida, quindi, è di mantenere coerenza politica, industriale e strategica nel tempo, al di là dei cicli elettorali e delle crisi contingenti.
LA VISIONE AMBIZIOSA RICHIEDE STRATEGIE INNOVATIVE. Il piano ReArm Europe/Readiness 2030 va letto come un momento di svolta per l’Unione Europea. Per la prima volta, la Commissione propone una visione ambiziosa per la difesa europea, sostenuta da strumenti finanziari innovativi. Tuttavia, le sfide sono numerose: superare le asimmetrie fiscali, evitare sprechi, costruire una cultura della difesa condivisa, sviluppare capacità efficaci e definire obiettivi strategici chiari. A nostro avviso tre considerazioni finali meritano attenzione.
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La prima riguarda la ricerca. La spesa del Pentagono in questo campo è pari a circa 140 miliardi di euro l’anno, mentre quella di tutti i paesi UE messi insieme è di circa un decimo. Senza colmare questo squilibrio l’Europa non potrà mai essere più forte militarmente. La seconda interessa le procedure. Il problema non è solo di fondi: l’Europa, oggi, spende a livello civile risorse considerevoli, come ad esempio nel suo programma Horizon. Ma questo non è neppure minimamente comparabile ai programmi civili degli Stati Uniti. L’Europa deve riformarsi, dare priorità ai risultati e non alle procedure, all’eccellenza, trascurando altri parametri che nel tema della ricerca, ancora di più quella militare, non hanno ragione di esistere.
Ultimo ma non meno importante punto è l’innovazione. NATO e Unione Europea hanno, negli anni passati, lanciato varie iniziative volte a favorire l’innovazione nel campo della difesa: il Fondo europeo per la Difesa, NATO DIANA, l’acceleratore tecnologico, e il Fondo Innovazione della NATO. Queste iniziative, però, sono destinate a fallire se non si adotteranno strategie che favoriscano l’ingresso di aziende innovative anche in ambito militare.
Questo articolo è pubblicato sul numero 2-2025 di Aspenia.