La pandemia in Africa: tra scelte forti e timori per il futuro

L’inevitabile arrivo della Covid-19 nel secondo continente più popolato al mondo è stato a lungo la grande paura di commentatori, epidemiologi, demografi e ricercatori del mondo intero. Sia per l’enorme mole degli scambi commerciali e di personale specializzato con la Cina, sia per l’inadeguatezza dei sistemi sanitari locali, l’Africa è sempre stata considerata la macroregione potenzialmente più in pericolo per i contagi in questa pandemia.

 

La lenta avanzata della pandemia

Il primo caso di Covid-19 in Africa risale al 14 febbraio 2020, in Egitto, quando un uomo di nazionalità cinese è risultato positivo al test diagnostico. In Africa sub-sahariana, il virus è stato confermato il 28 febbraio, alla positività di un cittadino italiano residente a Lagos, Nigeria. Da allora, il virus si è propagato in quasi tutti i paesi del continente, pur senza la crescita verticale registrata in alcune parti dell’Occidente.

Al 4 maggio, in Africa vi sono 47.545 casi accertati e 1.836 morti – con una letalità apparente al 3,9%, in linea con quella dei paesi occidentali (fonte). Praticamente tutti i paesi africani hanno riportato casi di Covid-19. Questi dati vanno comunque contestualizzati: l’incapacità cronica dei sistemi sanitari africani di offrire una trasmissione di dati efficiente è nota, e la percentuale di casi “sommersi” potrebbe essere molto maggiore rispetto a quella dei paesi occidentali. Ma se è vero che in febbraio solamente Senegal e Sudafrica erano in grado di produrre e fornire test tamponi in autonomia, è altrettanto vero che l’OMS ha direttamente presidiato ad aumentare le capacità dei laboratori dell’intero continente ad individuare gli agenti patogeni. Una capacità che sappiamo essere cruciale nel trattamento della pandemia a livello nazionale. Tutto sommato, dunque, il virus non sembra aver ancora colpito il continente africano come si temeva.

Il coronavirus in Africa per numero di casi. Fonte.

 

Meno contagi?

Di fronte a questi numeri, ci si interroga ancora se l’Africa sia stata in qualche modo meno colpita dal virus, o se questa latenza non sia semplicemente una prolungata prima fase della pandemia. La bassa età media della popolazione è stata individuata come origine della minor diffusione del virus e della letalità contenuta. Un’altra ipotesi, oggetto di pubblicazioni scientifiche e rilanciata dalla dott.ssa Moeti, Direttrice dell’OMS per l’Africa, vede nel clima caldo e umido un fattore di rallentamento della diffusione – un fattore d’altronde conclamato in altri tipi di coronavirus più comuni.

Alcuni ricercatori ed accademici hanno avanzato l’ipotesi che l’epidemia di Ebola del 2014 abbia in qualche modo preparato i sistemi sanitari ad affrontare un contagio così ampio, pur nelle difficoltà di un contesto sanitario debole. Ad esempio, gli ospedali hanno impiegato un tempo molto breve – soprattutto se comparato con quello necessario ai colleghi in Europa – a mettere in piedi strutture e percorsi separati per i pazienti Covid.

D’altra parte, però, i mezzi esigui sono un fattore di rischio troppo grande se la pandemia dovesse svilupparsi su ordini di magnitudine più grandi: l’intera Africa subsahariana beneficia appena dell’1% delle spese mondiali per la sanità. La distribuzione di medici è di 2 camici bianchi ogni 10.000 abitanti, e gli ospedali possono assicurare, in media, solamente 1,8 letti ogni 1000 persone (per fare un paragone: in Germania sono oltre 8).

 

Un lockdown permissivo, ma repentino

Consci dei problemi strutturali della sanità pubblica, i governi hanno dunque scelto di prendere misure atte a rompere le catene di contagio, eloquentemente definite “martello”. E in effetti, nonostante i timori iniziali e le diverse modalità, i paesi dell’Africa subsahariana hanno reagito prontamente all’arrivo della pandemia, a tratti persino in maniera aggressiva. Nello spettro di misure, è difficile ritrovare scelte radicali come quella della Svezia o opzioni preventive estremamente aggressive come l’approccio di data and contact tracing estensivo adottato dalla Corea del Sud o da Taiwan. Nessun paese africano può permettersi il rischio di un contagio incontrollato, né i sistemi sanitari e di data monitoring saprebbero rispondere alle esigenze profonde emerse nei paesi asiatici. Ma in paesi la cui economia è basata sull’informalità e sul contatto, è anche virtualmente impossibile attuare misure di lockdown serrato come successo in Italia o Spagna – e ancor meno come in Hubei.

Misure preventive sono però già state attuate nella maggior parte dei paesi subsahariani, incluse restrizioni sui viaggi, cancellazione di eventi pubblici, chiusura di scuole e università, inasprimento delle restrizioni sugli ingressi. In Nigeria, per esempio, la chiusura totale delle scuole è stata ordinata a fronte di appena 8 casi confermati nell’intero paese (in Italia ne sono serviti oltre 3000, il 5 marzo); il Senegal ha confiscato 4 grandi hotel, le cui 625 stanze saranno destinate alla cura di pazienti Covid; in Gabon, dove il contagio è limitato alla capitale Libreville, il governo ha deciso di tagliarne con il resto del paese (assieme a diverse misure di intervento sociale). Se da un lato è vero che l’Africa non può permettersi un’escalation di casi come in Europa e negli Stati Uniti, è anche vero che parte dell’opinione pubblica non si aspettava una tale rapidità di decisione: a differenza dell’Europa, l’Africa sembra aver agito anche al di là delle preoccupazioni dell’OMS.

Misure restrittive della sfera sociale sono state messe in piedi con relativa rapidità, ma l’attuazione di ulteriori provvedimenti in campo sanitario per contenere il diffondersi del virus potrebbe porre diverse difficoltà. In effetti, la stessa dott.ssa Moeti ha riconosciuto che applicare quotidianamente misure sanitarie e di distanziamento sociale sarà problematico in zone rurali dove è raro l’accesso a strutture igieniche basilari (come acqua pulita e sapone), o in comunità in cui la socialità è un aspetto fondamentale del viver comune. Per di più, la possibilità di mantenere i malati in quarantena è stata definita “un lusso”, dato che spesso sotto lo stesso tetto vivono più generazioni e non tutti hanno un letto a disposizione.

Più generazioni convivono sotto lo stesso tetto, uno scenario comune nel continente africano

 

È improbabile che i governi riescano ad attuare appieno queste misure, tanto più se porteranno sulla restrizione della vita domestica e quotidiana. Sarà infatti particolarmente difficile vigilare sull’implementazione di misure restrittive verso i mercati locali (veri e propri centri delle comunità), verso le predominanti attività agricole (che impiegano molte più persone che in occidente) e verso l’economia informale. Buona parte delle amministrazioni ha comunque compreso che, in società fortemente basate sul senso di comunità, è più facile ascoltare un’autorità locale che non il governo centrale. È il caso, ad esempio, della Costa d’Avorio, dove l’amministrazione ha formato i dignitari locali e li ha resi vettori per le informazioni più importanti in tema di sicurezza e sanità.

C’è un paese, tuttavia, che presenta sinistre similitudini con i casi euro-americani: il Sud Africa. Con oltre 8.000 casi confermati (di cui il primo a inizio marzo) il Sud Africa non è solamente il paese con più casi, ma anche quello in cui i contagi scendono meno. L’annuncio del lockdown alla fine di marzo è stato seguito da tre giorni di permissivismo, con robuste conseguenze nei giorni successivi. Nonostante i proclami di 36.000 test giornalieri, il paese sinora ha testato meno del previsto, e il sistema reggeva la prima fase di testing sulle capacità del settore privato. Tuttavia, la curva epidemiologica del Sud Africa non si è impennata con il numero giornaliero di casi in stagnazione, tanto che il governo ha annunciato di voler lenire le restrizioni.

 

L’impatto sull’economia

La restrizione della sfera pubblica avrà conseguenze gargantuesche sulle fragili economie africane. I paesi dell’Africa subsahariana hanno una crescita media del PIL molto più grande rispetto al resto del mondo (3,7% su base annua nel 2018, secondo l’OCSE) ma non possono permettersi rallentamenti a causa delle grandi disuguaglianze, che ne minano alla base la solidità. I governi africani, ancor più di quelli europei, devono trovare il modo di assicurare sostentamento alle fasce di popolazione più deboli e alle realtà rurali.

Poiché gran parte dell’economia africana è “informale”, l’opzione di money transfer agli esercizi chiusi (come ad esempio successo in Danimarca) non è percorribile. Una prima soluzione per assicurare un livello minimo di attività economica è riconfigurare gli spazi dei mercati – in particolare con procedure di trattamento sanitario dei prodotti, più spazio per mantenere le distanze, etc. Si tratta, per esempio, di quanto successo in Repubblica Democratica del Congo, dove i mercati all’aperto sono rimasti aperti in formato addirittura allargato (pur con controlli all’ingresso), ma dove si applica un severo coprifuoco notturno.

La buona notizia è che alcuni paesi hanno rinforzato i programmi di protezione sociale e persino messo in piedi strutture per il trasferimento di denaro contante ai cittadini, ove possibile. Sebbene queste soluzioni abbiano un impatto a breve termine e solamente nei grandi centri abitati, l’infrastruttura esiste e porta un beneficio concreto alla popolazione. Tuttavia, è bene tenere a mente che a lungo termine un impatto economico di così ampio respiro potrebbe avere conseguenze dirette anche sull’emigrazione, con degli scenari – ad oggi – impossibili da predire.

Anche a livello internazionale, le maggiori organizzazioni si sono mosse per fornire aiuti. L’Onu ha stanziato 715 milioni di dollari in aiuti alimentari per lo Zimbabwe; il Fondo Monetario Internazionale ha concluso un accordo con il Ruanda per il trasferimento di 109,4 milioni di dollari; infine, la Banca Mondiale ha destinato centinaia di milioni alle economie del Sahel, di cui 47 a beneficio della RDC.

Gli effetti politici

In molti hanno avanzato l’ipotesi che i governi africani abbiano agito con fermezza e rapidità non solo per scongiurare le conseguenze mortali della pandemia, ma soprattutto per mettersi al riparo da possibili rivolte popolari. In effetti, persino i ricercatori del Ministero degli Affari Esteri francese ritengono che se le aspre misure non saranno compensate da interventi sociali decisi ed efficaci, i governi rischiano di essere confrontati ad un sentimento di acredine ancor più forte – specialmente nella regione del Sahel e nell’Africa centrale, dove Stati autocratici e governi autoreferenziali devono ancora rendere conto delle numerose crisi economiche, securitarie, e sociali del recente passato. Questo è particolarmente vero per gli Stati ove il potere centrale è ancora fragile ed è stato oggetto di recenti contestazioni (come in Burkina Faso, in Kenya, in Burundi, ma anche in Sud Africa).

Altri analisti africani hanno notato come, in realtà, questo rinnovato caos sociale sia sempre stato un elemento di rinforzo per i regimi, che potrebbero approfittarne per rinforzare il proprio apparato securitario. Si tratta di uno scenario verosimile per gli Stati che hanno una solida tradizione autoritaria, come ad esempio il Ruanda.

E’ inevitabile, in ogni caso, che l’OMS e gli osservatori internazionali – compresi molti governi europei, soprattutto alla luce dei flussi migratori in uscita dal continente – rimangano preoccupati. Se è vero che per il momento l’Africa sta tenendo alla prima ondata di contagi, sappiamo anche che basta poco per far schizzare in alto le cifre: un’eventualità che le fragili strutture sanitarie non possono permettersi. Come tutto il mondo, anche l’Africa patirà conseguenze economiche significative ed esiste la concreta possibilità che la Covid-19 vada a ridisegnare anche la carta politica degli stati dell’Africa subsahariana.

 

 

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