Il matrimonio che NATO e Russia avevano celebrato nel 2002 a Pratica di Mare è naufragato nel tempo. Il collante della lotta al terrorismo islamico non è bastato a fermare la deriva di Mosca verso la ricerca di una ritrovata sfera di influenza. Se gli allargamenti a est dell’Alleanza atlantica possono avere avuto un peso nella rottura, determinante è stata però la volontà russa di tornare al ruolo di grande potenza continentale. Un disegno in cui l’Ucraina riveste un ruolo fondamentale.
Sembrava un matrimonio riuscito. Celebrato fra Alleanza atlantica e Federazione Russa il 28 maggio 2002, in Italia, a Pratica di Mare, dopo un fidanzamento decennale. Le basi c’erano: NATO e Russia erano state insieme in Bosnia, avevano più o meno rappezzato lo strappo sul Kosovo, avevano concluso il Founding Act nel 1997 e, dopo l’11 settembre, erano accomunate dalla minaccia di un nemico comune, il terrorismo islamico. Nell’arco di vent’anni il rapporto si è prima incrinato, poi spezzato, fino a diventare dichiaratamente antagonistico e portare NATO e Russia sulla soglia della guerra. Al punto di evocare la terza guerra mondiale e, con irresponsabile frequenza da parte di Mosca, l’arma nucleare.
Il Cremlino ha rotto argini di cautela retorica osservati religiosamente durante la guerra fredda, specie dopo la crisi dei missili cubani del 1962. Oggi, il confronto fra NATO e Russia è più frontale e direttamente ostile di quanto non fosse allora. Sul piano della sicurezza europea stiamo “peggio di prima”; prima inteso come ai tempi della sfida planetaria fra le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica.
LA DERIVA DELLE PLACCHE GEOPOLITICHE. Come è avvenuto questo drammatico deterioramento di un rapporto che Pratica di Mare sembrava aver saldato? Toccherà agli storici dipanare la matassa. A caldo si possono fare solo due ordini di considerazioni. La prima è legata al prepotente ritorno del gioco delle grandi potenze negli equilibri internazionali. Non che fosse mai sparito, ma a Pratica di Mare era in secondo piano. Nel 2002 la Russia era debole, la Cina emergeva economicamente ma non sfidava politicamente, il terrorismo era la minaccia dominante. E faceva da collante. La seconda è che il futuro dei rapporti NATO-Russia e degli assetti di sicurezza europea si articolerà in funzione degli esiti della guerra ucraina, degli equilibri che determinerà fra Kiev e Mosca e dei nuovi schieramenti che si delineano, specie con il probabile ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza. Sono tutte incognite che pesano enormemente sulle prospettive dei rapporti Russia-NATO.
L’unica cosa sicura è che la guerra – e il modo in cui la Russia l’ha iniziata, condotta e continuata, dall’aggressione premeditata alle efferatezze sul terreno – non permette il ritorno neppure a stadi intermedi di cooperazione, per non parlare del breve idillio di Pratica di Mare. Il rapporto va verso un gelo profondo, che non esclude un dialogo, ad esempio in materia di controllo e limitazione degli armamenti, ma rimanendo dialogo fra nemici. Insomma, potranno rimanere in pace guardandosi in cagnesco. Nulla di nuovo per un’alleanza difensiva come la NATO che ha la deterrenza nel dna. È però un cambiamento di scenario radicale per la politica estera italiana che nei confronti della Russia aveva in Pratica di Mare un punto cardinale. Ancora nel 2018, in pieno regime di sanzioni contro Mosca dopo l’annessione della Crimea e l’abbattimento del volo mh17 da parte dei ribelli filorussi del Donbass, c’era in Italia una scuola di pensiero convinta che “lo spirito dello storico vertice del 2002 è più che mai attuale”[1]. Salvo casi di filorussismo patologico, quest’ottica è oggi improponibile. Allora, pur rispondendo a comprensibili logiche economiche nazionali, rispecchiava una diffusa miopia – chi scrive non fa eccezione – sugli spostamenti delle placche tettoniche europee in corso dopo il 2002.
Le placche tettoniche si muovono lentamente ma inesorabilmente. Quando si scontrano spunta l’Himalaya. La guerra ucraina è il risultato del processo che ha condotto la placca Russia a collidere con quella ucraina, lacerando il tessuto del rapporto NATO-Russia. Questo processo è avvenuto a tappe, sotto gli occhi di tutti, ma senza pienamente realizzare dove ciascuna tappa portava. Ricostruirle permette di tracciare il sentiero della guerra di Vladimir Putin, altrimenti incomprensibile in una logica italiana, europea e occidentale. Il presidente russo vi si era incamminato da tempo. Non ce ne siamo accorti, o abbiamo preferito non accorgercene.
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DA PRATICA DI MARE A MARIUPOL. Il percorso da Pratica di Mare a Mariupol si articola in tre fasi, segnate da due punti di svolta. Nella prima, dal 2002 al 2008, il barometro resta tendenzialmente al bello; le perturbazioni cominciano però ad accumularsi intorno al vertice NATO di Bucarest per scendere a un punto di rottura con l’invasione della Georgia. Nella seconda, dal 2008 al 2014-15, non sale mai oltre il variabile per precipitare al decisamente brutto con la rivolta democratica di Maidan e gli interventi russi in Crimea e Donbass. La bassa pressione stabile della terza gira a uragano il 24 febbraio scorso, quando le truppe russe varcano confini e linee di separazione per aggredire l’Ucraina. Il rapporto NATO-Russia entra così nell’occhio di un ciclone che non controlla.
Inizialmente, Mosca e l’Alleanza sembravano aver trovato un modus vivendi reciprocamente accettabile. Nel 2003 l’Iraq spacca l’Atlantico e getta zizzania all’interno della NATO, ma risparmia i rapporti con la Russia. Putin si trova nella comoda posizione di fare un’opposizione “morbida” ai neo-con di Washington dietro lo schermo di Chirac e Schroeder. Col grande allargamento europeo del 2004 (Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia) il passaggio dei paesi dell’ex-Patto di Varsavia sul versante atlantico è completo, con l’aggiunta dei Baltici ex-URSS che porta la NATO al confine con la Russia. Mosca non gradisce affatto, ma incassa e non protesta. Le incrinature cominciano però a venire a nudo e convergono intorno al vertice NATO di Bucarest del marzo 2008.
Già l’anno prima, l’atmosfera del Consiglio NATO-Russia è inquinata dalla controversia sul programma di difesa missilistica dell’amministrazione Bush. Secondo i russi, altererebbe l’equilibrio nucleare strategico. Ma dietro la cortina fumogena di un progetto che non vide mai alla luce, lo strappo più forte viene dalla decisione unilaterale della Russia di sospendere gli obblighi del Trattato sulle Forze convenzionali in Europa (CFE), emanata con decreto presidenziale del 14 luglio 2007. I limiti stringenti e i meccanismi di notifiche e ispezioni reciproche facevano del CFE un pilastro della sicurezza europea e un volano di reciproca fiducia. Liberandosi dai vincoli del CFE, la Russia riacquista una libertà di manovra. Se ne servirà presto e ripetutamente. Nel clima del dopo guerra fredda, la NATO – come pure Washington, le capitali europee e l’UE – sottovaluta l’uscita di Mosca dal CFE. La Russia è ancora militarmente debole in capacità convenzionali, non certo considerate in grado di rappresentare una sfida all’Alleanza e, quindi, di costituire una minaccia alla sicurezza europea. In realtà, cestinando le obbligazioni del CFE, Putin getta le basi degli interventi militari in Georgia e Ucraina, nonché della ripresa di frequenti esercitazioni in grande stile ai confini della NATO.
Il 2008 è un anno chiave nei rapporti NATO-Russia. Il vertice di Bucarest si tiene dopo appena un mese dalla dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo (17 febbraio), avversata da Mosca. Le obiezioni russe non sono state prese in considerazione: un irritante in più. In agenda c’è un altro allargamento. I candidati sono Tirana, Zagabria e Skopje. L’ultima non passerà per il veto greco sul nome; dovrà attendere una decina d’anni e aggiungere “Nord” a Macedonia. C’è la difesa missilistica, canto del cigno di George Bush. E c’è la proposta di concedere a Georgia e Ucraina l’anticamera dell’ingresso nella NATO: il Membership Action Plan (MAP). Mosca fa sapere che quest’ultimo è l’unico passo veramente inaccettabile, disegnando così una linea rossa sui confini dell’ex-URSS.
LE PRIME MOSSE SU GEORGIA E UCRAINA. A Bucarest, la forte spinta americana per il MAP si incaglia sulle secche dell’opposizione franco-tedesca. La NATO decide per consenso e il consenso non c’è. Per non deludere del tutto Kiev e Tbilisi – e non pregiudicare la ricucitura transatlantica fra la seconda amministrazione Bush e il cambio della guardia intervenuto a Parigi (Nicolas Sarkozy) e Berlino (Angela Merkel) – trova un acrobatico compromesso verbale nel comunicato finale: niente MAP oggi, ma membership domani. Il domani è imprecisato ma la linea rossa di Mosca è varcata. Al tempo stesso, Kiev e Tbilisi rimangono senza alcuna garanzia di difesa collettiva nel perseguire la scelta di consolidare indipendenza e identità nazionale post sovietica avvicinandosi al solco euro-atlantico. I georgiani se ne accorgeranno per primi, quando cadono nella trappola delle provocazioni russe dall’Ossezia meridionale e subiscono una mini-invasione in agosto. Gli ucraini rimarranno in un limbo fino al 2014, quando senza colpo ferire Mosca annetterà la Crimea, per poi fomentare il separatismo in Donbass e, da ultimo, scatenare la guerra d’invasione senza se e senza il 24 febbraio di quest’anno. Ogni volta la NATO protesta, condanna, aiuta georgiani e ucraini, ma non interviene.
La mossa russa sulla Crimea del 2014 non avrebbe dovuto essere una sorpresa. Era stata annunciata. Bucarest è anche l’ultimo vertice NATO cui partecipa Vladimir Putin. Il presidente russo arriva nella capitale romena per il Consiglio NATO-Russia, a lavori già iniziati. Il comunicato finale è stato appena redatto: Georgia e Ucraina “saranno membri dell’Alleanza”. In pubblico, Putin maschera bene l’irritazione ma ricorda a tutti, in plenaria, che la Crimea fu un “regalo” dell’Unione Sovietica, Segretario Generale l’ucraino Nikita Krusciov, a Kiev. Le sue parole cadono nella distrazione generale. La breve guerra di agosto sposta poi l’attenzione sulla Georgia. Ma l’avvertimento c’era stato.
La faglia apertasi fra Russia e NATO nel 2008 si rappezza ma non si rimargina nella successiva stagione del reset avviata dalla nuova amministrazione americana di Barack Obama. Lo favorisce il contemporaneo passaggio di consegne a Mosca fra Vladimir Putin e Dmitry Medvedev, più apparente che reale: tutti sanno che Putin rimane il burattinaio, ma il nuovo presidente avrà qualche margine di manovra. Washington si muove rapidamente nel sostituire il programma di difesa missilistico dell’amministrazione Bush con il ben meno invasivo European Phased Adaptive Approach (EPAA). La risposta russa è tiepida. Mosca vorrebbe ridiscutere l’intera architettura di sicurezza europea e avviare un negoziato tendente a recuperare una zona esclusiva d’influenza. Washington e la NATO non ci stanno e la proposta finisce su un binario morto. Il reset non è tuttavia privo di risultati. Nella primavera del 2011, la Russia non presta ascolto alle sirene di Muammar Gheddafi e si astiene sulla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU dando di fatto il via libera all’operazione Unified Protector dell’Alleanza che farà cadere il regime del Colonnello libico.
Una scelta del delfino non del tutto condivisa? Certo è che quando riprende le redini della presidenza, nel 2012, Vladimir Putin non è più disposto a fare sconti. Blocca il Consiglio di Sicurezza sulla Siria. Nel 2015 scarta la collaborazione con gli Stati Uniti, che John Kerry e Sergey Lavrov stanno faticosamente negoziando, per intervenire militarmente a sostegno di Bashar al-Assad. Nel frattempo, la crisi ucraina del 2014 aveva già stilato l’atto di morte del reset. Ma il detonatore non era stato la NATO. L’amministrazione Obama aveva annacquato molto le candidature di Georgia e Ucraina, diventate più un rituale che un convinto obiettivo. Dal canto suo, a Kiev il nuovo presidente filorusso, Viktor Yanukovich, puntava inizialmente sull’accordo di associazione con l’Unione Europea. Il nyet di Mosca anche all’UE gli fa precipitosamente cambiare rotta, la piazza ucraina gli si rivolta, Yanukovich scappa, la Russia annette la Crimea e fomenta Lugansk e Donetsk. Inizia così la lunga guerra strisciante fra Mosca e Kiev che è diventata guerra aperta con l’invasione russa del 24 febbraio.
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Alleanza difensiva, la NATO alza immediatamente la guardia antirussa a partire dal 2014. La deterrenza diventa la parola d’ordine di tutti i successivi vertici (Cardiff, Varsavia, Bruxelles, Londra, Bruxelles) e delle misure militari sul fronte Est, in particolare con l’Enhanced Forward Presence.
Queste ultime sono peraltro strettamente limitate al perimetro dell’Alleanza. L’Ucraina è fuori – e vi rimane. È diventata il macigno nei rapporti politico-diplomatici con la Russia ma la NATO rimane ai margini dello schermo. È l’UE che sanziona Mosca; sono Parigi e Berlino che trattano gli accordi – inattuati – di Minsk con Mosca e Kiev nel formato Normandia. Alla NATO, le candidature, sia ucraina che georgiana, restano sulla carta di Bucarest pur scivolando nel profondo disinteresse dell’amministrazione Trump. Joe Biden che vuole una pausa con la Russia per concentrarsi sulla Cina si guarda bene dal ravvivarle.
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LA FUTURA ARCHITETTURA DI SICUREZZA. Quando gli storici ricercheranno le cause della sciagurata guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina dovranno guardare a est molto più che a ovest. Quali che siano state le incomprensioni accumulatesi fra NATO e Russia negli ultimi vent’anni, la genesi della guerra va ricercata a Mosca. Per Vladimir Putin non è tanto la NATO che non deve venire a est, è l’Ucraina che non deve andare a ovest. Le è vietato attraversare la linea rossa anticipata a Bucarest. Kiev non deve uscire dal cono della lunga ombra dell’Orso russo per avvicinarsi al resto dell’Europa. Per il presidente russo il vero problema è l’indipendenza dell’Ucraina, ancora non metabolizzata trent’anni dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, tanto più se democratica e accompagnata dallo stato di diritto, quindi potenzialmente contagiosa. Idem, di riflesso, per Georgia o Moldova, ma Kiev rimane il pezzo grosso. L’approdo all’Unione Europea, spesso vilificata da Vladimir Putin che non la capisce, minaccia la stabilità interna del regime putiniano e il disegno di restaurazione di grande potenza continentale.
Quest’ultimo chiama in gioco la NATO. Se anche Kiev sceglierà la neutralità (con garanzie di ferro), l’Alleanza atlantica rimarrà il perno indispensabile della sicurezza europea. Cosa succederà ai rapporti NATO-Russia? La cooperazione è sparita, la Russia no. Il binomio deterrenza-dialogo sarà probabilmente mantenuto nel nuovo concetto strategico che dovrebbe essere adottato nel vertice di Madrid del 29 giugno. Ma l’una è l’imperativo categorico; l’altro un percorso in salita, pur necessario se non altro sul piano dei contatti militari e del controllo armamenti. Quando le circostanze lo permetteranno si tornerà a parlare con Mosca anche di futura architettura di sicurezza. Non è un tema che si possa affrontare senza Russia al tavolo. Ma Mosca vi si siederà con un pesante handicap, geostrategico, di risorse e, soprattutto, di fiducia. Chi è causa del suo mal…
Quanto al rapporto NATO-Russia, il matrimonio di Pratica di Mare si è concluso in un astioso divorzio per una fondamentale incompatibilità di carattere. La NATO è l’antitesi della zona d’influenza cui aspira la Russia di Vladimir Putin. Che confonde alleanza volontaria con subordinazione. Non c’è dubbio che l’Alleanza atlantica tenga legata l’Europa agli Stati Uniti. Ma per scelta europea. Sono gli europei a voler tenere gli americani “in”, e a preoccuparsi quando accennano a veleggiare verso altri lidi. Nella NATO, c’è libertà di dissenso – che può bloccare l’Alleanza – e di politiche estere nazionali eccentriche: chiedere alla Francia o alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. In tre quarti di secolo di storia atlantica non si sono mai visti carri armati americani intorno alle capitali europee per metterle in riga. A differenza di Budapest, Praga e, ora, Kiev. Questa la differenza fra “alleanza” e “zona d’influenza” che il Cremlino tuttora non capisce.
[1] Gian Maria De Francesco, Il Giornale, 15 aprile 2018.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 97 di Aspenia.