Angela Merkel è visibilmente indispettita; dopo la battuta d’arresto della sua CDU in Turingia e nella Saar, i media tedeschi le hanno rimproverato di aver condotto una campagna elettorale troppo in sordina, sfumando al limite dell’inconsistenza il proprio programma politico e rinunciando al confronto diretto con l’SPD. Ma la Cancelliera non vuole regalare soddisfazioni alla stampa: “Non c’è alcun motivo per cui dovremmo cambiare strategia”, conclude. D’altra parte, il suo atteggiamento sobrio e riflessivo non è altro che il prodotto studiato di un disegno politico molto preciso, volto a farla accreditare agli occhi degli elettori tedeschi come guida rassicurante e capace per una Germania in bilico tra la ripresa e una lunga stagnazione.
Adenauer, Kohl, Merkel. A questo aspira la Cancelliera: entrare a buon diritto nel Pantheon dei capi di governo cristianodemocratici più politicamente longevi nella storia della Repubblica federale. E per riuscirvi occorre calma, moderazione e distanza; distanza, se del caso, anche dall’avversario. In questi ultimi mesi di campagna elettorale la signora Merkel non hai mai cercato lo scontro con la socialdemocrazia, in cuor suo sicura di averne incarnato i principi assai meglio degli stessi colleghi dell’SPD. Salari minimi, sussidi per i genitori, fondo unico per la sanità e messa in sicurezza delle pensioni pubbliche sono lì a dimostrarlo. Anche nello spento duello televisivo con il suo sfidante, il Ministro degli Esteri e Vicecancelliere Frank-Walter Steinmeier, la Cancelliera non ha mai alzato il tono né aggredito l’avversario. E forse il segreto della sua finora intramontabile popolarità risiede proprio in questo: saper parlare a ciascuno, con la flemma tipica di un Primo Ministro di consumata esperienza del tutto impermeabile alle piccole polemiche.
Ora, però, lo scenario è in procinto di cambiare: riuscirà la signora Merkel a mantenere questo suo profilo super partes anche in un governo con l’FDP, formazione politica da molti additata – spregiativamente – come “neoliberista”? L’incognita effettivamente rimane. Forse persino per lei stessa, ormai abituata a dover mediare giorno e notte con l’alleato socialdemocratico. Paradossalmente, anzi, è stata proprio l’esperienza di governo con i tradizionali avversari a consentirle di ascendere a star indiscussa della politica tedesca. E’ grazie ad una SPD lacerata al suo interno e priva di una guida chiara, insomma, che l’astro di Frau Merkel ha cominciato a brillare. Ogni successo della Große Koalition veniva percepito, in patria come all’estero, come un successo della signora Merkel, quasi che si trattasse di una donna sola al comando. Prima della crisi finanziaria, la Cancelliera era riuscita a far suo persino il verbo ecologista, seminando il panico tra coloro i quali sull’ambientalismo un quarto di secolo fa fondarono un partito, i Verdi.
Della titubanza rimproveratale nell’inverno scorso, quando tutti gli altri Stati allargavano i cordoni della borsa per mettere in sicurezza banche ed imprese e la Germania restava a guardare, non è rimasto più nulla. Nel frattempo, infatti, anche il governo tedesco è entrato in azione: i due pacchetti congiunturali- dicono gli economisti- hanno impedito che il tasso di crescita della Repubblica federale precipitasse più di quanto sarebbe avvenuto in loro assenza. Il regime di “settimana corta” ha permesso di evitare pesanti tagli ai posti di lavoro e il generoso incentivo alla rottamazione ha concesso al mercato dell’auto una temporanea boccata di ossigeno. Il 27 di settembre segnerà per così dire uno spartiacque. Con il venir meno delle misure tampone, infatti, la Germania dovrà tornare ad interrogarsi su problemi che la affliggono ormai da un decennio: una spesa pubblica fuori controllo, i consumi perennemente stagnanti, la disoccupazione in crescita e un sistema sanitario costoso ed inefficiente.
I sondaggi che, a due settimane dal voto, danno il partito socialdemocratico al 23%, record storico negativo, si spiegano anche in questo modo. Al governo ininterrottamente da undici anni, l’SPD ha pian piano perso la fiducia degli elettori, che hanno finito oggi per voltarle le spalle. Persino il cosiddetto Deutschland-Plan, il programma attraverso il quale Steinmeier ha promesso di creare quattro milioni di nuovi posti di lavoro, è sembrato un abborracciato libro dei sogni, buono solo per recuperare qualche voto. Tale disaffezione verso l’SPD rappresenta d’altro canto il trampolino di lancio per i movimenti minori, a partire dalla Linkspartei di Oskar Lafontaine e Gregor Gysi. Benché non abbia sperimentato alcun balzo in avanti nelle rilevazioni demoscopiche, l’estrema sinistra ha incominciato a rosicchiare consensi preziosi anche nei Länder situati nell’ovest della Germania, in quelli cioè nei quali non aveva tradizionalmente alcun seguito: alle elezioni regionali del 2008 risale infatti l’ingresso di Die Linke nei parlamenti di Assia, Bassa Sassonia e Amburgo. A fine agosto di quest’anno l’ulteriore conferma di questo trend si è avuta con lo strepitoso successo (21% dei suffragi) nella piccola Saar.
Al di là delle possibili alleanze a livello locale, l’SPD ha però finora sempre categoricamente smentito di voler formare un esecutivo con i postcomunisti. “Mancano di responsabilità”- ha ricordato ancora l’altra sera Steinmeier nel corso del duello con la Cancelliera -“in particolar modo per ciò che riguarda la politica estera. Le loro richieste di un ritiro immediato dall’Afghanistan e le loro posizioni antieuropeiste non sono conciliabili con il nostro programma”. D’altra parte i ripetuti attacchi all’FDP di Guido Westerwelle, la cui ideologia liberista sarebbe “quella che ha provocato questa drammatica crisi”, escludono l’ipotesi di un governo rosso-giallo-verde (più noto come “semaforo”), per usare i colori che in Germania vengono affibbiati a ciascun partito politico. Allo stato attuale, per l’SPD sembra insomma valere quanto ironicamente suggerito dalla signora Merkel all’apertura della campagna elettorale: “Concediamo loro una pausa. Si riposino. E lo facciano stando all’opposizione”.
A dire il vero, data l’incertezza e la complessità del quadro politico, con i due storici partiti popolari che raccolgono a fatica il 60% dei voti e un consolidamento delle formazioni più piccole, quella che pareva una soluzione di emergenza potrebbe presto diventare la normalità. Se per l’SPD, dunque, la Große Koalition è l’unico appiglio per continuare a rimanere al governo, anche per la Cancelliera l’ipotesi di un’alleanza con i liberali di Guido Westerwelle è personalmente rischiosa. Nel bel mezzo della crisi, l’FDP propone un drastico taglio delle aliquote, che si finanzierebbe forse solo con una netta chiusura del rubinetto della spesa, cresciuta anche in questa legislatura. Di qui i malumori suscitati in alcuni ambienti della CDU e nei cristianosociali della CSU. Il governatore della Baviera Horst Seehofer non ha risparmiato frecciate velenose all’FDP, accusandola di voler promuovere una selvaggia deregolamentazione dei mercati e di voler fare della macelleria sociale.
Anche i Verdi, che in campagna elettorale hanno puntato tutto sul rispetto del phase out dall’atomo e sullo sviluppo delle energie rinnovabili, hanno dipinto l’FDP come un partito di pericolosi lobbisti fautori degli OGM. Cionondimeno i liberali rimangono in alto nei sondaggi, tra il 13 e il 15%, quattro o cinque punti percentuali più avanti rispetto alla tornata del 2005. Segno che la chiarezza di intenti- in particolare la strenua difesa dei contribuenti contro i salvataggi di Stato- è una strategia che paga.