Il ritorno delle città-Stato nell’epoca globale

Analizzare le città come protagoniste, nelle loro mille differenze, ci ricorda che quasi sempre adottiamo una visione semplicistica e rarefatta della politica, dell’economia e della società. In una prospettiva storica, non è affatto strano che le città abbiano avuto – e abbiano tuttora – un ruolo centrale: la parola “politica” rimanda all’antica concezione greca della convivenza urbana, e l’appartenenza a uno Stato (con i relativi diritti) a quella latina del “cives”. La radice etimologica è sempre la stessa, che provenga dalla civiltà greca o da quella latina. E naturalmente va ricordato che le “poleis” della Grecia classica erano appunto città-Stato – seppure in un’accezione diversa da quella dello Stato moderno. La città era in sostanza il centro nevralgico, deliberativo e decisionale dal quale sono poi emerse, con un percorso lungo e tortuoso, molte delle pratiche e dei metodi della democrazia.

Alle città e ai relativi fenomeni di concentrazione sono legati indissolubilmente altri passaggi storici fondamentali, ad esempio la crescita dei centri per gli scambi commerciali. I mercati, che inizialmente sono luoghi fisici, cioè piazze o strade, sia nel mondo classico che in quello medievale; la fioritura culturale e scientifica del Rinascimento; la rivoluzione industriale, accompagnata da una grande e conseguente urbanizzazione.

Come illustrano vari saggi del numero 81 di Aspenia, le città di oggi sono soprattutto un superconcentrato delle caratteristiche del XXI secolo, nel bene e nel male. Alcune grandi metropoli sono per certi versi “città globali”, letteralmente “cosmopolite”: poli connessi con il resto del mondo che fungono da snodi delle grandi reti economiche e culturali. Le grandi metropoli ad alta intensità di popolazione hanno ormai più analogie fra di loro che con la propria nazione di appartenenza. E inglobano le aree limitrofe: le megalopoli non potrebbero essere isolate dall’ecosistema che le circonda e ne soddisfa le esigenze (energetiche, idriche, alimentari).

È il ritorno delle città-Stato ma in epoca globale: il potere nazionale è in parte contenuto all’interno e in parte scavalcato all’esterno dalla rete fra le grandi città. Ed esiste una nuova gerarchia fra città in ascesa e in declino, a seconda della loro posizione in una geografia dello sviluppo che continua a differenziarsi e modificarsi. Il nuovo “ordine urbano” è diverso da quello di pochi decenni fa. Aumentano i poli di sviluppo asiatici: oltre Pechino, Shanghai, Tokyo e Singapore si stagliano ormai Bangalore, Seul e Chengdu. Cresce ancora, all’interno degli Stati Uniti, il peso delle città costiere. L’unica città italiana che vi appare bene inserita è Milano, con il suo retroterra e i suoi possibili collegamenti, in direzione di Torino, Genova, Bologna e il cuore dell’Europa. Mentre falliscono, per le ragioni spiegate da Carlo Ratti nel suo racconto su Songdo, gli esperimenti di nuove città immaginate e costruite sul nulla, senza storia e cultura alle spalle.

Nessuna grande città – neanche quelle a vocazione più nettamente locale – sfugge ormai ai flussi globali: siano essi digitali (quelli che più facilmente annullano le distanze geografiche e comprimono il tempo) o fisici (come le migrazioni, che creano un costante rimescolamento culturale oltre che genetico, e le reti energetiche e infrastrutturali).

A ben vedere, anche le città del passato sono state antesignane di un tratto che consideriamo tipico del mondo post-moderno: la connettività. Per utilizzare le parole dell’urbanista ed economista Edward Glaeser, le città per loro stessa natura sono un tentativo di annullare le distanze, e “il loro successo dipende dalla richiesta di connessione fisica”, cioè di prossimità e scambi intensi (“Triumph of the City”, 2011). Essendo dei portali di comunicazione e dei luoghi di fertilizzazione reciproca, i centri urbani sono per definizione “smart” (o dovrebbero esserlo), come indica il linguaggio mutuato dal digitale.

Le città-Stato dell’epoca globale diventano così incubatori e acceleratori, che secondo una parte degli osservatori hanno perfino sostituito le grandi aziende come propulsori della “new economy”. Secondo il rapporto annuale di McKinsey (“Global cities of the future”) l’economia globale sta diventando sempre più “urbanocentrica”: il 65% del pil che si realizzerà nei prossimi dieci anni sarà concentrato nelle grandi aree metropolitane, là dove capitale umano e capitale finanziario si incontrano. La fertilità del tessuto urbano è tale che – secondo un’altra stima ricorrente – una crescita del 10% della popolazione urbana corrisponde a una crescita di circa il 30% del pil. In altre parole: proprio la convergenza di alcuni fattori produttivi in un dato luogo consente a quel luogo di trascendere la geografia. Ma per poi riuscire a competere, gran parte delle città dovrà scegliere una propria specializzazione settoriale. La “vocazione” è parte integrante della nuova competizione fra le 600 città che faranno la differenza.

Il ritorno delle città-Stato, nell’epoca globale, contiene però importanti contraddizioni. Se le città sembrano decisamente essere una condizione necessaria del progresso, creando il contesto per lo sviluppo, non sono certo garanzia di crescita equilibrata e distribuita. Anche quando le distanze vengono quasi azzerate per alcuni settori dell’economia e della società, sappiamo che ciò non è altrettanto vero per altri settori: si verifica così una specie di biforcazione economica, delle opportunità, dei redditi, perfino degli stili di vita – come indica il Watch di Richard Florida, che apre questo numero. Vincenti e perdenti della globalizzazione urbana finiscono per trovarsi a strettissimo contatto, nei luoghi in cui divergono in modo palese le abitudini tra i più abbienti e i meno abbienti: la prossimità rende assolutamente evidenti e tangibili i costi sociali della crescita economica, comprese le sue diseguaglianze e incluso il cosiddetto “squeezing” della classe media. Il risultato è che la nuova povertà è uno dei tratti comuni a tutte le grandi città, che ospitano il 30% della povertà assoluta su scala globale.

Da qui, e dall’impatto dei flussi migratori verso le città globali, derivano ulteriori effetti tangibili in molte metropoli del XXI secolo: i muri, le separazioni fisiche e sociali, non sono più tanto collocati tra i grandi aggregati politici come gli Stati-nazione, ma demarcano le zone delle singole città.

In breve e come è del resto facilmente intuibile: le metropoli di oggi condensano, in un microcosmo del mondo globale, grande ricchezza e grande povertà, radicamento al territorio e quasi totale mobilità, realtà geografica e annullamento della distanza. La stessa architettura riflette la varietà di questo microcosmo, con i diversi tipi di pianificazione urbanistica e abitativa, o in alcuni casi l’assenza di qualunque pianificazione (che a volte può anche produrre, se accompagnata da incentivi intelligenti, risultati creativi).

Assieme alla povertà interna, tutte le grandi città globali hanno di fronte una seconda sfida: la sostenibilità. Al livello di disuguaglianza interna si aggiunge infatti il livello di produzione delle emissioni inquinanti: si produce nelle città il 75% delle emissioni globali.

Questo dato di fatto conferma che le grandi città di oggi – dove si concentrerà nel 2025 il 60% della popolazione mondiale – vanno ormai viste come fattori “sistemici”. Anche per una ragione generale: quanto più lo Stato-nazione classico è percepito come disfunzionale rispetto ai suoi compiti “sovrani” – o a compiti del tutto nuovi, ritenuti comunque cruciali dalla popolazione – tanto più il livello organizzativo delle comunità urbane tende ad apparire come una valida alternativa. Si veda, come indicazione in questo senso, la decisione di parecchie città americane di confermare politiche per combattere il cambiamento climatico – anche con reti internazionali – al di là del ritiro dell’amministrazione Trump dagli accordi di Parigi.
Seguire gli esperimenti di sostenibilità e innovazione in corso in moltissime città è importante non solo per ragioni politiche ma anche perché si tratta di processi all’avanguardia sul piano ambientale, architettonico, nella gestione dei trasporti e della logistica: sono processi, nel loro insieme, che avranno un grande impatto sulla qualità della vita. Le aree urbane sono il luogo per eccellenza dei consumi, dunque degli effetti ambientali e degli sprechi che ne conseguono. Soffrono degli eccessi della concentrazione, come appunto l’inquinamento, ma sono anche il luogo ideale della sperimentazione, come conferma il caso di Milano, ricordato nell’articolo di Gioia Ghezzi.
La questione ambientale apre così un’ulteriore scenario al limite del paradosso: le città tendono a diventare più “verdi” che mai, mentre le grandi aree suburbane o delle periferie estese – si pensi ai famosi “urban sprawls” americani – producono in modo crescente inquinamento e sprechi. Almeno nel medio termine e con le tecnologie attualmente disponibili o in fase di sviluppo, non conviene farsi tentare da una sorta di “utopia agraria”, perché di fatto gli insediamenti extraurbani sono orientati alle grandi dimensioni delle dimore private e alle grandi estensioni sul territorio; a loro confronto, le città di medie dimensioni appaiono frugali e quasi spartane, con vari esperimenti di “circular economy”.
Come suggerisce nel suo saggio Saskia Sassen, e come spiega Stefano Boeri, è una fase di grande sperimentazione sui temi ambientali: la combinazione fra nuove tecnologie e spinte creative permetterà soluzioni senza precedenti. Piuttosto che illudersi sulle possibilità di ritorno a un passato bucolico e immaginario, conterà la gestione del futuro urbano e il grado in cui le città riusciranno davvero a essere smart: le città-Stato intelligenti del XXI secolo.

* Questo articolo è stato pubblicato in forma di editoriale su Aspenia 81 – “Il ritorno delle città-Stato”.

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