Il Recovery Fund e le scelte italiane

La confusione di idee, in Italia, sulla destinazione dei soldi del Recovery Fund (per chiamarlo col suo vecchio nome, più familiare, ufficialmente „Next Generation EU“) rischia non solo di condurre ad un utilizzo non ottimale, ma di alimentare dubbi in Europa sull’opportunità di finanziare in misura così rilevante i deficit di bilancio italiani.

Ursula von der Leyen e Giuseppe Conte

 

I nostri partner cominciano ad accorgersi che alla classe politica italiana sfugge il senso della svolta che, di fronte alla catastrofe COVID, l’UE e in particolare la Germania hanno compiuto nell’abbandonare la riluttanza alla mutualizzazione del debito. Non dell’eccessivo indebitamento dovuto all’accumularsi dei deficit cronici, si intende, ma di quello provocato dalla crisi economica indotta dalla pandemia. E con una prospettiva di ritorno entro un paio di anni a bilanci virtuosi.

Noi ci comportiamo come chi, colpito da un cataclisma, ha mandato un bravissimo avvocato a Bruxelles a discutere con la compagnia di assicurazione e, ottenuta la promessa di un maxi-indennizzo, al di là delle previsioni (ma mancano ancora alcune autorizzazioni), si domanda come spenderlo. Regali a tutti i parenti e clientes, lavori di restauro della casa a lungo trascurati, una macchina di prestigio; ma idee vaghe su come rendere più efficiente l’azienda per assicurarsi un buon reddito a lungo termine.

Molto si è scritto sul metodo discutibile adottato per questa programmazione dal nostro avvocato – fuor di metafora, il Presidente del Consiglio dei Ministri –  cui abbiamo affidato mandato pieno: „stati generali“, invito a tutte le categorie, lobby, ministeri a farsi avanti con le loro richieste; invece di dettare precise priorità, sentiti quelli che stanno a Bruxelles, e sottoporle celermente, con spiegazioni convincenti, al Parlamento. Ma il difetto non è solo di metodo.

Viene infatti ignorata la filosofia che ispira il lungimirante progetto franco-tedesco, fatto proprio dalla Commissione: fare della crisi una opportunità, come suol dirsi. Non un rilancio qualsiasi della domanda e dell‘offerta, ma una ripartenza incanalata verso quella trasformazione delle economie richiesta dalle grandi sfide del nostro tempo e rispettosa degli interessi di chi oggi è giovane: arresto del cambiamento climatico, creazione di nuovi posti di lavoro in sostituzione di quelli cancellati dal progresso tecnologico, apparati statali efficienti, un fardello del debito contenuto.

Per questa ragione l’UE ha ribattezzato il Recovery Fund in „Next Generation UE“: non più un „fondo“ a cui attingere per tornare al livello di prosperità precedente e i cui costi peseranno sulle spalle dei figli  (di tutti gli europei), ma un ambizioso programma ispirato a un nuovo modello di sviluppo, tale da giustificare lo sforzo di solidarietà imposto ai paesi membri più „ricchi“.

Una buona parte del mondo politico italiano continua invece a vedere nella futura manna del Recovery Fund un indennizzo per le sofferenze inflitte a noi più che ad altri dal Covid la primavera scorsa, e il frutto di un ravvedimento degli ex-sostenitori di una perniciosa austerità, di una conversione al keynesiano deficit spending da noi sempre predicato e praticato. Via libera dunque ad impiegarlo, quando si materializzerà, per tappare falle create da passate gestioni poco oculate, soddisfare bisogni sinora sacrificati ad esigenze di bilancio, varare grandi progetti di prestigio. Qualsiasi spesa, anche il fantomatico ponte sullo Stretto, viene presa in considerazione perché creerebbe domanda e farebbe salire il PIL.

Nella scelta dei settori e dei progetti, nell’ambito delle priorità suaccennate, il criterio-guida deve essere quello di massimizzare la creazione di posti di lavoro. Ci si dovrebbe dunque concentrare in larga misura, per quelli a fondo perduto, sulla decarbonizzazione („green new deal“), sulla cura del dissesto idro-geologico, sulla formazione professionale, sul rafforzamento del settore ospedaliero e della medicina territoriale in vista di future pandemie. La „digitalizzazione“ è stata indicata dalla Commissione come un altro settore prioritario (secondo solo all’ecologia): ciò significa modernizzare la pubblica amministrazione e la macchina della Giustizia (soprattutto nel caso dell’Italia), sviluppare la tele-medicina, l‘alfabetizzazione informatica, la didattica a distanza, contribuire ad affrancare l’Europa dalla tecnologia cinese (vedasi 5G). Un discorso diverso va fatto per l’automazione, in quanto crea meno posti di lavoro di quanti ne distrugge, e comunque viene sospinta dalle logiche di mercato.

Il governo italiano ha tutto l’interesse a presentare senza indugi un programma convincente – „credibile“ dicono a Bruxelles – cioè conforme a tali criteri e priorità, perché a livello del Consiglio Europeo i giochi non sono ancora fatti. Il braccio di ferro fra paesi sovranisti e Parlamento può non solo ritardare il varo del Next Generation UE , ma forse anche offrire ai „frugali“ lo spunto per rimetterne in questione l’ammontare o pretendere nuove condizionalità. Meglio non risvegliare vecchie diffidenze nordiche.

Alle lamentele per il previsto ritardo nell’entrata in funzione del Fondo i nostri partner potrebbero rispondere che basterebbe attingere al MES da noi snobbato, ricordando che è destinato non solo a spese in materia sanitaria ma anche ad altre esigenze create dalla pandemia.

L’Italia suscita apprensioni non quando prevede forti „scostamenti di bilancio“ per il 2021 e il 2022 – lo fanno anche i paesi „virtuosi“ – ma quando sembra orientarsi verso una cronicizzazione di deficit fra il 5 e il 10%, prospettando leggi troppo generose in materia pensionistica, fiscale o assistenziale, oppure grandi opere giudicate non essenziali. Il Patto di Stabilità è sospeso, ma non abolito. In Germania si parla di tornare al pareggio di bilancio nel 2022.

 

 

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