Tra Parigi e Mosca è in corso un braccio di ferro per il controllo dell’influenza sul Mali, Stato che è considerato centrale per la stabilizzazione dello Sahel. Un suo consolidamento – a fronte di una situazione caratterizzata dalla presenza di gruppi jihadisti che operano travalicando le frontiere, anche sfruttando le crisi politiche presenti nei Paesi saheliani – potrebbe infatti provocare un effetto domino sugli Stati vicini stabilizzando i flussi migratori, garantendo un maggior controllo sui traffici illegali e una maggiore efficacia nella lotta contro lo jihadismo. Nel confronto tra Francia e Russia un ruolo fondamentale sembrano averlo guadagnato proprio gli jihadisti, specialmente dopo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan.
La Francia è presente militarmente in Mali (sua ex colonia fino al 1960) dal 2013, quando Bamako richiese l’intervento delle truppe francesi per contrastare l’avanzata dei gruppi jihadisti presenti nel nord del Paese. Per far fronte alla natura transfrontaliera dello jihadismo l’anno seguente l’operazione Serval (con circa 1800 soldati francesi) venne estesa alla regione dello Sahel con l’Opération Barkhane (circa 5100 militari francesi). Di quest’ultima Emmanuel Macron, in giugno, ha annunciato l’imminente chiusura, sottolineando però che non si sarebbe trattato di un ritiro delle truppe francesi, ma di una ridefinizione dell’impegno anche attraverso l’operazione Takuba, che vede coinvolti diversi paesi europei – ma non l’Unione Europea – tra cui l’Italia.
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Con Takuba Parigi spera di condividere gli oneri della missione (ma non il comando) con gli alleati, cercando di mantenere il controllo sulla ex colonia con un impegno minore del proprio contingente, come chiesto da parte dell’opinione pubblica francese. Un obiettivo che la Francia potrebbe raggiungere incrementando il ricorso ai droni e alle uccisioni mirate dei leader jihadisti, come accaduto con la recente eliminazione di Abu-Walid Al-Sahrawi, tra i leader dello Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS).
Se il compito della Francia (e dei paesi europei coinvolti) è contrastare lo jihadismo sul campo, la strategia degli Stati Uniti in questa parte dell’Africa si concentra sul contenimento dell’espansionismo russo e cinese – Pechino sta infatti aumentando la sua presenza nel continente anche grazie agli investimenti della Via della Seta – anche attraverso l’impiego di forze speciali. La Turchia sembra stia monitorando la situazione in Sahel per cogliere l’occasione di indebolire la posizione francese: Ankara e Parigi hanno numerose dispute aperte nel Mediterraneo orientale, per il controllo dei giacimenti tra Cipro ed Egitto, e in Libia. Per quel che riguarda le forze jihadiste, queste sono principalmente riconducibili al Gruppo a Sostegno dell’Islam e dei Musulmani (GSIM) e allo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS). Le due sigle si contrappongono tra di loro e fanno riferimento la prima ad al–Qaida, la seconda allo Stato Islamico.
La Russia, invece, nutre forti interessi a ristabilire un controllo – “informale”, sfruttando i mercenari del gruppo Wagner, compagnia militare privata nelle mani dell’oligarca Evgenij Prigozhin, uomo considerato vicino a Putin e soggetto a sanzioni da parte degli Stati Uniti – su un Paese come il Mali che in epoca sovietica era nella sua orbita. Da diversi anni Mosca sta rafforzando la propria presenza militare, economica e politica in Africa – tra i vari paesi dove sono presenti i mercenari: Libia, Repubblica Centrafricana, Guinea, Sudan, Congo, Ruanda, Angola, Botswana, Zimbabwe, Mozambico e Madagascar. Col Mali Mosca ha siglato due accordi di cooperazione per la difesa, nel 1994 e nel 2019. All’interno della strategia russa il Mali e il Sahel nel suo complesso, oltre a rappresentare un bacino di voti favorevoli in seno all’ONU, servono per costruire delle relazioni economiche e commerciali, creando una “rete” con gli Stati in cui la Russia è presente in diverse forme e gradazioni. Centrale è, inoltre, estromettere gli europei da una zona vitale per la loro difesa e per il controllo dei flussi migratori. Il Cremlino otterrebbe così un utile strumento di pressione nei confronti dell’Europa, rafforzando la sua narrazione di forza alternativa rispetto a quelle occidentali, puntando anche sull’assenza di un passato coloniale.
Il colpo di Stato avvenuto in Mali nel maggio scorso – il secondo, in meno di un anno – ha portato al potere una giunta di militari con stretti legami con la Russia. Secondo alcuni, sarebbe proprio il Cremlino ad aver orchestrato il golpe. I colonnelli Malik Diau e Sadio Camara, tra gli artefici del colpo di Stato del 2020 e oggi in ruoli chiave dello Stato, hanno trascorso un anno di addestramento in una scuola militare di Mosca; il Primo ministro nominato dall’esercito, Choguel Maiga, ha studiato in Unione Sovietica nella seconda metà degli anni Settanta, prima in Bielorussia, poi all’istituto di telecomunicazioni di Mosca. Tuttavia, il Presidente del Mali e guida dei militari al potere, Assimi Goita, ha preso parte ad un addestramento al George C. Marshall European Center for Security Studies, un istituto di studi sulla sicurezza e la difesa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e del Ministero federale della difesa della Germania; Goita, inoltre, ha partecipato agli addestramenti dell’U.S. Africa Command nell’Africa occidentale e ha partecipato a un seminario bilaterale della Joint Special Operations University presso la MacDill Air Force Base in Florida.
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Da quando il nuovo governo si è insediato le relazioni con la Russia si sono intensificate, come dimostra del resto la notizia, diffusasi nella metà di settembre, di un accordo che dovrebbe portare circa mille mercenari del gruppo Wagner, secondo alcune fonti, in Mali per addestrare e fornire protezione ai vertici del paese, almeno formalmente. Parigi si è attivata immediatamente per non rendere l’accordo operativo, inviando il Ministro degli esteri Florence Parly in missione in Mali. La Germania, presente con delle truppe nella regione, minaccia di ripensare il dispiegamento dei propri soldati se non verranno fatti dei passi indietro. Le persistenti tensioni con il governo maliano si sono esacerbate dando luogo a un duro scambio diplomatico e a un avvicendarsi di notizie incerte.
Il 25 settembre il Primo ministro ad interim Maiga, durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha accusato la Francia di aver abbandonato Bamako nella lotta contro i terroristi, riferendosi alla fine dell’operazione Barkhane. Il 28 settembre si incontrano il viceministro degli Esteri, nonché rappresentante russo per i Paesi Africani, Michail Bogdanov e l’ambasciatore del Mali in Russia Tiefing Konate. Il 30 settembre il Presidente francese Macron replica alle dichiarazioni di Maiga alle Nazioni Unite definendole una «vergogna», mettendo inoltre in dubbio la legittimità, derivata da un colpo di Stato, del governo maliano. Nello stesso giorno la Russia consegna quattro elicotteri e un carico di armi e munizioni a Bamako, parte di un accordo stipulato nel 2020. La situazione peggiora ulteriormente il 5 ottobre quando il Ministro degli Esteri del Mali convoca l’ambasciatore francese per i commenti rilasciati da Macron il 30 settembre. Negli stessi giorni Maiga, parlando con dei media russi, afferma che i francesi avrebbero creato un’enclave a Kidal, nel nord del Mali, e che l’avrebbero consegnata al gruppo terroristico Ansar al–Din che si presume sia legato ad al–Qaida. Commento che va ad alimentare una voce diffusa in Mali secondo cui, per l’appunto, i francesi starebbero appoggiando e armando i gruppi separatisti del Nord. Nonostante l’intransigenza di Parigi sulla possibilità di aprire un tavolo per delle trattative con il GSIM, il 19 ottobre si diffonde la notizia secondo cui il Ministro degli affari religiosi avrebbe chiesto all’Alto Consiglio islamico, il più importante organo religioso del Paese, di aprire le trattative con il gruppo vicino ad al-Qaida. Favorevole a queste sarebbe l’influente imam wahabita Mahmoud Dicko, alla guida dell’Alto Consiglio fino al 2019, e tra i principali oppositori del deposto Presidente Keita. Il 21 ottobre la Francia ottiene un successo che può sfruttare per rafforzare la propria posizione di fronte alle pretese maliane di dialogo, uccidendo Nasser Al Tergui, tra i vertici di Katiba Serma, cellula jihadista affiliata al GSIM. Il giorno seguente il governo maliano smentisce di aver chiesto all’Alto Consiglio di avviare delle trattative con il GSIM.
Le trattative con il GSIM rimangono, comunque, un’opzione plausibile. Il ritiro statunitense dall’Afghanistan avvenuto in parziale accordo con i Talebani ha creato un precedente, e secondo alcuni osservatori, tra cui anche il Segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, potrebbe aver rafforzato le posizioni degli jihadisti in Africa. Uno dei leader del GSIM, Iyad Ag Ghaly, ha salutato sin da subito la vittoria talebana con favore, stabilendo un nesso tra la “ritirata” francese dal Mali, per la fine dell’operazione Barkhane, e quella statunitense. L’Afghanistan potrebbe quindi essere sfruttato per capitalizzare ulteriormente i deficit strutturali degli anni di intervento francese in Sahel che non hanno risolto la povertà e la corruzione, così come i sentimenti anti francesi presenti nella regione – dovuti in parte anche alla sensazione che Parigi usi due pesi e due misure perché la successione arbitraria ai vertici del Ciad, attore fondamentale nella regione, avvenuta ad aprile non sarebbe stata condannata da Macron.
Inoltre, molti osservano: se in Afghanistan si è dialogato con i Talebani, lo si potrà fare anche in Mali con il GSIM. Tanto più che un accordo tra Bamako e il GSIM potrebbe essere trovato anche in nome del comune interesse nel contrastare la presenza dello Stato Islamico nella regione e nell’intero continente, dove il califfato sta trovando nuova vita grazie ad una serie di alleanze con gruppi militanti locali. È, questo, un primo scenario possibile. Un secondo è che la Francia riesca a vincere il braccio di ferro con la Russia e a mantenere la propria influenza su Bamako.
Un terzo è che il Mali estrometta, perlomeno parzialmente, Parigi in favore di Mosca e, del resto, l’opinione pubblica maliana sembra accogliere con favore il possibile arrivo dei russi – anche se alcune contrarietà per la presenza dei mercenari della Wagner stanno emergendo a causa della loro reputazione e sono espresse, ad esempio dal Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad, una coalizione di ex ribelli Tuareg e arabi del nord del Mali. Un accordo con la Russia potrebbe rendere nuovamente plausibile il primo scenario: le trattative con il GSIM. La Russia si è dimostrata infatti disponibile al dialogo con i Talebani, recentemente anche invitandoli al summit di Mosca del 20 ottobre in cui hanno partecipato diversi paesi dell’Asia centrale, l’India, la Cina, il Pakistan e l’Iran.
Stabilizzare l’Afghanistan, per Mosca, significa stabilizzare una regione in cui si intersecano vari interessi, depotenziando inoltre possibili insorgenze jihadiste sul proprio territorio. Pertanto il dialogo con il GSIM e il consolidamento del Mali e dello Sahel in funzione di contrasto all’ISIS possono essere letti come parte di un ampio progetto securitario che, per il Cremlino, avrebbe anche il vantaggio di rendere più stabili le relazioni economiche con i vari paesi africani in cui Mosca è presente, offrendo inoltre un utile strumento di storytelling: la Russia riesce là dove gli Occidentali falliscono.