Bruxelles, Kyiv e la globalizzazione che verrà

 La decisione della UE di offrire all’Ucraina lo status di Paese-candidato segna un passaggio importante per l’Unione, oltre che per Kyiv. Intanto, è una scelta compiuta con un consenso amplissimo: la Commissione l’ha proposta, il Parlamento l’ha votata (529 favorevoli, 45 contrari e 14 astenuti), il Consiglio l’ha appoggiata con forza – e sarà opportuno ricordarsene quando saranno avanzate le inevitabili obiezioni e il percorso si farà difficile. Si tratta, appunto, di un percorso che inizia e che giustamente dovrà rispettare i molti criteri, politici e tecnici, per l’adesione alla UE; dunque, siamo di fronte in ogni caso a un lungo cammino senza garanzie preventive di successo. Il segnale ha però profonde implicazioni da subito, sia per il continente europeo sia per alcune tendenze globali.

La presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen e il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky

 

E’ chiaro anzitutto che da Bruxelles arriva così la conferma di quanto avremmo dovuto sapere fin dal 2014, quando fu siglato l’accordo di Associazione con l’Ucraina che fece scattare la prima invasione russa decisa da Vladimir Putin per rimettere in riga il governo di Kyiv (allora guidato dal Presidente Petro Poroshenko, dopo le dimissioni del filo-russo Viktor Janukovyč). Si può dire che già da allora Mosca considerava un legame economico diretto UE-Ucraina come una minaccia esistenziale, a prescindere da qualsiasi coinvolgimento diretto della NATO nella vicenda. E’ un punto fondamentale per il futuro della sicurezza pan-europea che non va dimenticato.

 

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Ne deriva infatti che a Bruxelles, il 23 giugno, è stata presa una decisione dai connotati politici e di sicurezza che va ormai ben oltre l’integrazione economica e le dinamiche interne dell’adesione: riconoscere a Kyiv il pieno diritto di schierarsi sul piano internazionale significa negare alla Russia ogni prerogativa “speciale” nella regione della ex-Unione Sovietica – oltre ovviamente che confermare la sovranità ucraina a tutti gli effetti. In sostanza, significa assumere un ruolo letteralmente “geopolitico” come blocco euro-occidentale, trasformando in realtà tangibile la retorica della UE come “attore internazionale”. Lo siamo diventati, che ci piaccia o no.

La capacità di attrazione della UE è del tutto evidente per chi si trova lungo i suoi confini, anche se a volte questo dato sfugge proprio a noi europei che ne vediamo prima i difetti. Quella forza attrattiva ha convinto Putin che non avrebbe potuto competere sul piano dei modelli politico-economici, spingendolo a fare ricorso allo strumento militare contro l’Ucraina – proprio come aveva già fatto contro la Georgia e la Moldova. A tale riguardo il possibile ulteriore allargamento della NATO è certamente un fattore di preoccupazione per Mosca, ma alla fine dei conti è più un effetto (del comportamento russo) che una causa, se si guardano le date delle successive adesioni all’Alleanza fino alla procedura in corso per Finlandia e Svezia.

Tornando all’Unione Europea (di cui peraltro i due Paesi scandinavi appena menzionati sono già membri), è arrivato il momento di riconoscere che Bruxelles sta facendo politica estera e di sicurezza anche con le sue scelte sulle future adesioni. In effetti lo abbiamo sempre saputo, utilizzando anzi deliberatamente l’allargamento come un surrogato della fragile “PESC” (formalmente, una politica “comune” che però i Paesi membri tendono regolarmente a ignorare o aggirare).

 

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Oggi il quadro è ancora più chiaro, perché lo status di candidato all’Ucraina si salda con il sostegno concreto, anche militare, che la UE sta fornendo a Kyiv. Semmai, sarà forse necessario disegnare una forma inedita di “aggregazione” all’Unione che consolidi il legame durante la lunga fase dei negoziati, cioè anche prima dell’eventuale piena adesione; del resto, è un’esigenza già emersa per altri Paesi rimasti finora in mezzo al guado. Il problema di chi resta in attesa senza prospettive ben definite è stato opportunamente richiamato da chi teme un effetto negativo sui candidati balcanici, in particolare. In breve, se è più che comprensibile la scelta di un’accelerazione nei confronti dell’Ucraina, si dovrà pur assicurare agli altri Paesi candidati – ciascuno con le proprie complicazioni lungo il percorso – che la strada porta a un qualche approdo; altrimenti, la stessa forza attrattiva della UE finirà per soffrirne.

In ultima analisi, Bruxelles deve anche tutelare la propria capacità decisionale e la propria coesione interna, già messa a dura prova dall’attuale Unione a ventisette membri. Per la verità, questo è anzitutto un problema di meccanismi decisionali, visto che perfino tra i sei Paesi fondatori si registrano a volte significative differenze di vedute che porterebbero a uno stallo. In ogni caso, la saldatura tra processo di allargamento e strategie di sicurezza costringe ora la UE a vedersi come un vero attore internazionale a tutto tondo. Essere la più grande e ricca area economica al mondo è un indubbio vantaggio negoziale e competitivo; ora si tratta di trasformare questa forma di potere in un fattore di influenza globale più ampio.

Arriviamo così al futuro prossimo della globalizzazione, sul quale la UE ha senza dubbio voce in capitolo anche se stranamente abbiamo spesso la sensazione di subirne soltanto le ripercussioni negative. Pensiamo per un momento al senso delle frasi pronunciate dal leader cinese, Xi Jinping, subito prima del recente vertice dei BRICs: oltre a criticare la “weaponizzazione” dell’economia globale causata a suo dire dalle sanzioni anti-russe, ha presentato la Cina come il vero paladino del libero scambio internazionale. Un paladino davvero improbabile, viste le caratteristiche del sistema economico cinese, che non è neppure capitalismo di Stato ma semmai del Partito unico.

Di fatto, siamo di fronte a due interpretazioni radicalmente diverse della globalizzazione: quella di Xi è fondata soltanto sulle lunghe catene del valore (e prevede una violentissima repressione interna), mentre quella perseguita da USA e UE, assieme ad altri Paesi del G7 e del G20, è fondata anche sulla rule of law. Il modello cinese punta tutto su quelle che in politica economica si definiscono “tecnologie fisiche” (comprese quelle digitali), mentre il modello alternativo che è anche proprio della UE punta soprattutto sulle “tecnologie sociali” (comprese le istituzioni democratico-liberali).

E’ questo il terreno di scontro del prossimo futuro, di cui fa parte l’aggancio democratico offerto da Bruxelles all’Ucraina. Come Pechino sa benissimo, la vera provocazione che ha indotto Putin all’errore strategico dell’invasione del 24 febbraio 2022 viene dal modello di globalizzazione occidentale, non certo da un massiccio schieramento di carri armati o missili dei Paesi NATO – che peraltro non c’è mai stato, ai confini della Russia, dopo la fine della guerra fredda. In tale contesto, la UE sta compiendo scelte finalmente strategiche, con un impatto globale oltre che macro-regionale sull’Eurasia.

In fondo, se Xi Jinping si sente in diritto di spiegarci come funziona il libero commercio, l’Unione Europea ha qualche titolo per mostrare al mondo come si perseguono simultaneamente standard di democrazia liberale e di mercato concorrenziale. Senza neppure minacciare costantemente il ricorso alla forza militare, come fa Pechino rispetto a Taiwan; ma con la capacità di perseguire politiche di sicurezza.

 

 

 

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