La strategia americana in Asia-Pacifico: la sintesi di economia e sicurezza

La grand strategy dell’Amministrazione Obama è definita da due direttrici strategiche parallele. La prima  prevede una fase di ripiegamento,  con la riduzione degli impegni militari diretti, soprattutto in Afghanistan e Iraq. La seconda prospetta il rilancio dei valori, degli interessi e dell’influenza degli Stati Uniti a livello globale.

Il cardine  della seconda direttrice è il “ritorno in Asia” degli Stati Uniti. Come ha ribadito Hillary Clinton recentemente[1], l’Amministrazione Obama considera la zona dell’Asia Pacifico, più del Medio Oriente, lo scenario in cui si decideranno gli equilibri politici e strategici del Ventunesimo secolo. Il mantenimento della leadership di Washington sarà strettamente legato alla capacità di riaffermare il ruolo guida  degli Stati Uniti nella regione economicamente  più dinamica del globo, ma anche quella potenzialmente  più instabile a livello politico e militare.

La cifra distintiva del ritorno in Asia è la sua natura multi-dimensionale. Le amministrazioni precedenti, ed in particolare l’amministrazione Bush, avevano privilegiato la dimensione militare del ruolo di Washington nell’area, riaffermando e ampliando le alleanze bilaterali con partner strategici quali Giappone, Corea del Sud e in misura minore, Indonesia, Tailandia  e  Filippine.

Alla dimensione militare, l’amministrazione Obama intende affiancare una strategia di re-engagement economico e istituzionale. Quest’ultima è mirata ad affrontare la principale minaccia per gli Stati Uniti nella zona, ovvero la “separazione della politica dall’economia”. Mentre Washington ha rafforzato il network di alleanze “hub and spoke” che la legano agli stati dell’Asia Pacifico, Pechino è diventata il principale polo di attrazione economica, oltre che il primo partner commerciale per tutti gli attori rilevanti  della regione.

Inoltre, la Repubblica Popolare nell’ultimo decennio ha assunto un ruolo di guida  nel processo di integrazione economica e commerciale, alimentando il cosiddetto noodle bowl, il complesso di accordi commerciali e free trade areas che legano le principali potenze economiche della regione.

Per l’amministrazione Obama questo processo di integrazione intra-asiatica rappresenta una minaccia all’egemonia  regionale e, in prospettiva, globale, degli Stati Uniti. In primo luogo perché nel breve periodo porterebbe a una diminuzione dell’influenza economica americana  in una regione in forte crescita. In secondo luogo, Washington teme che la riduzione della sua capacità di attrazione economica, unita al ruolo della Cina come nuova “potenza indispensabile” nell’area, si possa tradurre in una progressiva emarginazione politica e militare. La proposta giapponese di creare una comunità asiatica con  Pechino senza la partecipazione americana – c avanzata nel 2009 dall’ex primo ministro giapponese Hatoyama – è considerata la prima avvisaglia di questo processo di riassetto.

La risposta dell’Amministrazione Obama è quindi diretta a ribadire il ruolo degli Stati Uniti quale “nazione indispensabile” non solo come fornitore di beni pubblici, (soprattutto sicurezza e “extended deterrence”), ma anche quale attore fondamentale nel processo di integrazione commerciale e motore della crescita economica.

Di conseguenza,  la promozione di un processo di integrazione economica trans-pacifica diventa presupposto essenziale per l’apertura della regione alla presenza americana, in alternativa alla creazione nel lungo periodo di un blocco regionale intra-asiatico guidato da Pechino.

La principale traduzione pratica di questa strategia è l’impulso  all’ampliamento della Trans Pacific Partnership negoziato al vertice dell’APEC di Honolulu in novembre. La TPP è nata nel 2005 come una zona di libero scambio tra Brunei, Nuova Zelanda  Singapore e Cile. Nel 2008 gli Stati Uniti, seguiti da Australia, Malesia, Perù e Vietnam hanno dichiarato la volontà di partecipare alla TPP. Con il vertice di Honolulu anche Giappone e Corea del Sud hanno avviato le trattative per l’ammissione.

Il proposito della TPP è quello di raggiungere un livello di integrazione più profonda sia rispetto alla miriade di accordi che costituiscono il noodle bowl, sia rispetto agli  standard attuali del WTO negoziati durante il Doha Round. La TPP prevede, infatti, elevati standard in materie quali  proprietà intellettuale, concorrenza, intervento dello stato, protezione del lavoro, libertà di circolazione dei lavoratori, certificazioni sanitarie e ambientali. Come dimostra l’esperienza europea, un percorso di armonizzazione in questi settori è necessario per la creazione di un mercato comune.

L’imposizione di questi standard non risponde solo ad una logica economica ma  ha una serie di motivazioni strategiche e politiche di lungo periodo , che rendono la TPP un tassello fondamentale del ritorno in Asia e del rilancio di valori, interessi e influenza degli Stati Uniti.

Se la TPP avrà successo, il processo di integrazione economica assumerà una struttura (quella del regionalismo trans-pacifico) e seguirà delle norme (quelle della “integrazione profonda”)  coerenti con i valori ma soprattutto con gli interessi americani.

Non a caso  la TPP viene giudicata dai vertici cinesi come il frutto di una “mentalità da guerra fredda” per frenare l’ascesa cinese. Al contrario, Hillary Clinton ha ribadito il carattere aperto della TPP e ha sostenuto che gli standard promossi da potranno rappresentare un fattore di socializzazione per la Repubblica popolare, che potrebbe trovare dei punti di riferimento su cui convergere nel suo cammino di crescita e sviluppo. Resta il fatto che questo processo di socializzazione comporterebbe un notevole costo economico e politico per il governo cinese. In ogni caso, nel breve periodo Pechino non potrà infatti raggiungere questi standard, il che determinerà una tendenza alla discriminazione per i prodotti cinesi. Un’eventuale convergenza nel lungo periodo avrebbe importanti conseguenze politiche il Partito Comunista, soprattutto per quanto riguarda settori come la concorrenza e la tutela dei lavoratori.

Anche se la TPP non va probabilmente vista come un progetto di contenimento economico dell’ascesa cinese, riflette comunque un tentativo di riaffermare il “potere strutturale” degli Stati Uniti, ovvero la capacità di dettare le regole dell’interazione economica e, così facendo, riaffermare il primato americano. Si registra qui una discontinuità rispetto al recente passato, poichè la caratteristica centrale di questo re-engagement  è la coerenza tra la dimensione economica e gli aspetti politici e strategici: una caratteristica per cui gli Stati Uniti sono avvantaggiati di fronte alla sfida cinese.

 

Hillary Clinton, “America’s Pacific Century”  Foreign Policy November 2011 http://www.foreignpolicy.com/articles/2011/10/11/americas_pacific_century

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