La Francia e il nodo tedesco sulla via delle riforme europee

È stata l’assenza di un accordo tra Francia e Germania ad impedire che al Consiglio Europeo di dicembre – l’ennesimo considerato “storico, fondamentale, determinante” – si avviasse la discussione sulle riforme istituzionali necessarie a un migliore funzionamento dell’Unione Europea.

O meglio: i due paesi-motori della costruzione europea si sono sì accordati, ma sul rinvio di un anno di ogni negoziato che avesse come obiettivo finale la revisione dei Trattati. La pistola fumante è a Berlino: a nove mesi dalle elezioni, Angela Merkel non ha alcuna intenzione di disorientare la propria opinione pubblica con una trattativa che finirebbe per contraddire l’inflessibile linea di condotta teutonica. Ma, meno apertamente, anche Parigi ha motivi di rallegrarsi per la dilazione: l’Eliseo non si trova affatto nella condizione, considerata ineludibile, di poter assumere la guida politica delle riforme – nemmeno simbolicamente.

La calma che in apparenza regna sui mercati e i progressi significativi comunque compiuti in direzione dell’unione bancaria hanno consentito dunque di rinviare l’analisi del fallimento del metodo intergovernativo che negli ultimi tre anni, come anche analizzato da Fabbrini e Micossi, ha guidato di fatto le scelte dell’Unione.  Ma è stato anche messo da parte – con sollievo – il preciso scadenzario di impegni disegnato dal presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy e il documento preparato dalla Commissione sulla federalizzazione dell’Europa entro il 2018.

François Hollande non è certo entusiasta all’idea di aprire un cantiere istituzionale a breve termine: la sinistra francese, a cominciare dal partito socialista a cui il Presidente appartiene, continua ad essere spaccata sui temi dell’integrazione e della sovranità. La frattura, già esistente in precedenza, è emersa in tutta la sua profondità nel 2005, in occasione del referendum sulla “costituzione europea” che i francesi hanno rifiutato. Benché Hollande all’epoca fosse schierato con gli “euroentusiasti”, dopo la sua elezione all’Eliseo ha invece incluso nel governo due tra gli esponenti socialisti più freddi verso ogni idea di devoluzione di poteri a Bruxelles, e tantomeno a livello sovranazionale: Laurent Fabius e Bernard Cazeneuve, rispettivamente ministro degli Esteri e delegato agli Affari Europei.

Il presidente francese, nei mesi successivi all’elezione, aveva dato segni di disponibilità: non erano mancate le aperture a un processo riformatore in senso federale (anche se si preferiva non utilizzare mai questa parola, aborrita da molta parte dell’opinione pubblica di Oltralpe). L’atteggiamento dell’Eliseo era una conseguenza della fine del duopolio Merkel-Sarkozy sul processo decisionale continentale: l’avvicinamento della Francia all’Italia, e in generale il suo allontanamento dalla linea del rigore tedesco, da un lato riuscivano a isolare politicamente la Germania consolidando il fronte dei paesi indebitati. Dall’altro rendevano possibile l’assunzione di un’iniziativa politica da parte francese, che si concretizzava nella richiesta di una politica di bilancio più elastica.

Tuttavia, due fattori hanno concorso a cambiare nuovamente le carte in tavola. Per prima cosa, come detto, l’ingresso nell’anno elettorale tedesco (il voto è previsto nel settembre 2013) ha provocato un irrigidimento nella Cancelleria di Berlino Inoltre, al di qua del Reno, François Hollande deve fare i conti con una situazione economica non drammatica, ma peggiore di quanto preventivato. Sebbene l’opposizione di centro e di destra sia in pezzi, il Presidente non ha intenzione di rivitalizzarla grazie a un dibattito – lungo e complicato – sull’integrazione europea, che non solo sarebbe difficilmente controllabile o indirizzabile dall’Eliseo, ma evidenzierebbe anche le grandi divergenze all’interno della maggioranza e potrebbe influenzare negativamente un’opinione pubblica già abbastanza delusa.

Si registra, nonostante tutto, ancora una netta differenza rispetto al punto di vista di Nicolas Sarkozy: l’ex presidente riteneva che l’Europa fosse attraversata da una crisi essenzialmente finanziaria, e che i rimedi dovessero dunque consistere in riforme esclusivamente economiche – da compiere senza abbandonare il modello intergovernativo di governo. Hollande si dice invece disposto alla riforma politica; debolezza economica e soprattutto divisioni interne al campo socialista impediscono però alla Francia di farsi portatrice di una proposta coerente; la allineano dunque, sebbene per altri motivi, alla posizione dilatoria tedesca.

Lo stallo di Hollande dimostra come la Francia non abbia ancora ritrovato la capacità di guida politica in ambito europeo che l’aveva contraddistinta fino all’inizio degli anni ’90. La proposizione attorno a cui continua a muoversi la diplomazia del governo e della presidenza francese, è quella secondo cui “non ci saranno cessioni di sovranità senza conseguente aumento della solidarietà (finanziaria)”. Si tratta di un’idea incompleta – come dimostra la proposta di Fabbrini e Micossi, sono molti e ben altri i temi meritevoli di discussione – e già in ritardo sugli sviluppi del dibattito, che rischia di far bollare la posizione francese come esclusivamente opportunista (sono noti i gravi problemi di bilancio di Parigi). L’Eliseo non si esprime con chiarezza né sulla possibilità di dotare il presidente della Commissione o del Consiglio Europeo di maggiori poteri, né sulla loro elezione diretta; né sull’ampliamento dei poteri legislativi del parlamento, né sulla sua trasformazione in Camera federale o confederale.

In tal modo, la classe politica francese corre il serio pericolo di essere emarginata dal confronto che altrove si è già spostato dalle riforme economico-finanziarie a quelle dei Trattati. A Berlino, Angela Merkel e il ministro degli Esteri Guido Westerwelle martellano da mesi sulla necessità di rafforzare il potere esecutivo continentale a partire dall’elezione diretta del presidente della Commissione e sull’esigenza di democratizzare l’UE trasformandola in una federazione sul modello teutonico. D’altronde, il vuoto politico lasciato da Hollande è ideale per orientare l’opinione pubblica, sia in patria che nel resto d’Europa, sulle posizioni che più convengono alla Germania.

L’Eliseo sembra infatti incapace di sciogliere il nodo che ne impedisce una coerente e “pesante” presa di posizione. A Parigi, il parlamento e i partiti sono impantanati da settimane sul federalismo di bilancio: nessuno si occupa di elaborare proposte sulle riforme istituzionali – con l’eccezione di politici come il verde Daniel Cohn-Bendit e il centrista François Bayrou, in ogni caso tutt’altro che cruciali negli equilibri politici francesi. Il partito socialista rischia di arrivare seriamente impreparato alle elezioni europee del 2014: l’intenzione dei cugini di oltre Reno dell’SPD è quella di impostare la campagna elettorale attorno all’attuale presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, che dovrebbe agire da portavoce delle idee di tutta la sinistra continentale. La gauche francese non si è nemmeno accorta di poter finire “commissariata”. Per quanto riguarda la destra, gli anni del direttorio Merkel-Sarkozy hanno già chiarito da quale parte (la stessa) pendesse la bilancia del peso economico e di quello politico.

L’inazione di Parigi potrebbe costare cara non solo alla Francia, ma anche all’Europa: la definitiva perdita di iniziativa politica sposterebbe tutti gli oneri e gli onori del processo di riforma europeo su Berlino. D’altronde, sembrerebbe proprio questo il momento giusto – dato l’euroscetticismo in sensibile calo – perché Hollande elabori finalmente una posizione capace di equilibrare l’intenso (e positivo) coinvolgimento tedesco. Se la Francia perdesse la volontà e la forza di proporsi prima degli altri con uno dei suoi decisivi “sì”, le resterebbe solo la possibilità di opporsi con uno dei suoi altrettanto decisivi “no”.

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