Il censimento della crisi economica negli Stati Uniti

Con la crisi economica iniziata nel 2008 l’America si è impoverita, soprattutto tra le minoranze, ed è diventata più diseguale. La povertà, oltre ad aumentare, è tornata a concentrarsi nello spazio. Sono queste alcune delle tendenze che emergono dalle rilevazioni realizzate dopo la pubblicazione dei primi dati del Censimento 2010.

Un recente rapporto del Census Bureau[1] sottolinea come il reddito familiare mediano delle famiglie americane – 49.445 dollari al 2010 – si sia contratto di oltre il 6% rispetto al 2007. Il decremento non si è verificato in misura eguale: fra gli afro-americani la riduzione è stata il doppio che fra i bianchi, mentre fra asiatici e latinos è stata invece una volta e mezzo quella dei bianchi. Seppure di poco, la crisi ha quindi ulteriormente allargato i differenziali di reddito fra le principali componenti etnico-razziali del paese.

 Al 2010, il rapporto fra il reddito mediano di una famiglia afro-americana e quello di una famiglia bianca era di 0,59, quello fra una famiglia ispanica e una bianca era di 0,69. Solo gli asiatici, con un ratio di 1,18 a loro favore, guadagnavano in media più dei bianchi: un altro dato ormai consolidatosi nel tempo. Se si guarda ai patrimoni – l’insieme di depositi bancari, azioni, immobili, etc – a disposizione delle famiglie, le cose vanno anche peggio. L’economia di carta del grande boom immobiliare e delle attività finanziarie a esso correlate ha drogato i patrimoni di tutte le componenti della popolazione, ma sono state le minoranze a perdere di più al momento dello sgonfiarsi della bolla. Il patrimonio mediano delle famiglie ispaniche – si rileva in un rapporto del Pew Research Center[2]– si è contratto dai 18.400 dollari circa del 2005 ai 6.300 del 2009, una caduta del 66%. Per gli afro-americani è andata appena meglio, con una caduta del 53% che ha ridotto il patrimonio mediano da circa 12.100 a 5.700 dollari. Di converso, il patrimonio delle famiglie bianche si è ridotto di solo il 16%, scendendo da quasi 135.000 a 113.100 dollari nello stesso periodo.

Le differenze, che l’uso di valori mediani piuttosto che medi aiuta ad apprezzare, si sono quindi acutizzate raggiungendo livelli che non si registravano da circa 25 anni. Il rapporto fra il patrimonio mediano delle famiglie bianche e quello delle minoranze è ormai di circa 20 a 1, mentre prima della crisi era di circa 11 a 1 nel caso degli afro-americani e di 7 a 1 nel caso degli ispanici. Nel 2009, il 31% delle famiglie ispaniche e il 35% di quelle afro-americane disponeva di un patrimonio nullo o negativo, per via dell’indebitamento, più del doppio che fra i bianchi. Inoltre, in tutti i gruppi, si è accresciuta la concentrazione dei patrimoni fra chi si trova nel 10% più ricco.

Notizie egualmente negative arrivano dai dati sulla povertà. Nel 2010, il tasso ufficiale di povertà era del 15,1%, il dato peggiore dal 1993, superiore di 2,6 punti percentuali rispetto all’inizio della crisi. A impressionare di più sono tuttavia i numeri assoluti del fenomeno: i poveri sono più di 46 milioni di persone, la cifra più alta da quando il Census Bureau rileva il dato della povertà nel paese (ovvero nel 1959, quando l’incidenza relativa era tuttavia decisamente più alta). Anche in questo caso la crisi ha approfondito i differenziali etnico-razziali: oggi più di un afro-americano e di un ispanico su quattro sono poveri – solo pochi decimali separano i due gruppi – mentre lo sono un solo bianco su dieci e poco più di un asiatico su dieci. I numeri assoluti delle persone raggiunte da una qualche forma di assistenza pubblica sono molto vicini a quelli della povertà. Un dato vale per tutti: almeno una parte – se non tutta – della spesa alimentare di quasi 46 milioni di americani è pagata con le carte elettroniche del Supplemental Nutrition Assistance Program, vale a dire i food-stamp.[3]

E i poveri tendono sempre di più a concentrarsi dal punto di vista spaziale (è dagli anni sessanta dello scorso secolo che la concentrazione spaziale della povertà è divenuta una vera e propria ossessione per accademici e policy-maker). Risiedere in un quartiere abitato da poveri è diffusamente considerato una fonte ulteriore di svantaggio sociale: servizi peggiori, meno occasioni di lavoro, il rischio del crimine e soprattutto role-model negativi, che allontanerebbero ancora di più i poveri dalle virtù sociali e morali della classe media, intrappolandoli in una condizione di esclusione. In linea con questo credo, la riduzione del numero di poveri residenti in un’area in cui più del 40% degli abitanti sono poveri – i cosiddetti extreme poverty neighborhood – era stata interpretata come uno dei segni più potenti della fondamentale bontà sociale (e razziale) dell’era clintoniana.

I dati del Census 2010, ancora in elaborazione, confermeranno probabilmente quanto documentato da alcune ricerche pubblicate nei mesi scorsi: negli anni 2000, e in particolare con l’avvento della crisi, i poveri sono tornati a concentrarsi nelle stesse zone, mentre anche il numero di quartieri poveri è ripreso ad aumentare. Al 2009, la popolazione complessiva – poveri e non poveri – degli extreme-poverty neighborhood era aumentata di circa un terzo rispetto al 2000, mentre è anche aumentata la probabilità che i poveri vivano in questi quartieri: la povertà “concentrata” pesa di più sul totale della povertà rilevata. La velocità con la quale la povertà è tornata a concentrarsi è particolarmente accentuata nelle aree suburbane: l’ennesima conferma della tendenza a una distribuzione più “equa” della povertà fra inner-city e aree suburbane.

Considerata l’assenza in molte contee suburbane di quelle reti sia pubbliche sia private di sostegno sociale tipicamente presenti nelle inner-city, nelle prime le condizioni di vita per le popolazioni a basso reddito possono risultare persino peggiori. In termini più latamente geografici, il concentrarsi della povertà conferma l’immagine di una crisi economica intenta a scaricare i suoi effetti più pesanti nei territori del boom immobiliare da una parte e in quelli della (affaticata) industria manifatturiera dall’altra. Nelle aree metropolitane del Midwest – tradizionalmente già molto segregate – la concentrazione della povertà è cresciuta più che altrove, liquidando in pochi anni progressi di interi decenni. Lo stesso discorso vale anche per alcune aree metropolitane della Sunbelt nelle quali si concentrano gli effetti del collasso immobiliare ma anche le sue vittime principali, i latinos.[4]

In sostanza, l’America che si appresta a votare per le elezioni presidenziali è per molti versi più simile a quella degli anni ottanta che a quella degli anni novanta e duemila: la frustrazione di chi fa esperienza diretta della povertà, e l’insofferenza di chi può osservarne gli effetti fuori dalla finestra, potrebbero giocare un ruolo importante in questa stagione elettorale, alla quale le minoranze – soprattutto i latinos – porteranno in dote un doloroso senso di declassamento.

 

[1] US Census Bureau, Income, Poverty, and Health Insurance. Coverage in the United States: 2010, Washington, DC, 2011.

[2] Pew Research Center, Twenty-to-One. Wealth Gaps Rise to Record Highs Between Whites, Blacks and Hispanics, Washington D.C., 2011.

[3] United States Department of Agriculture, ottobre 2011.

[4] Elizabeth Kneebone, Carey Nadeau, e Alan Berube, The Re-Emergence of Concentrated Poverty: Metropolitan Trends in the 2000s, Brookings Institutions, Washington DC, 2011.

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