Alla ricerca di un delicato equilibrio tra diritti: al lavoro, alla salute, alla riservatezza

Con la pandemia, in Italia e’ scoppiato anche un conflitto senza precedenti tra tre importanti diritti con dignità costituzionale. Quello al lavoro, quella alla salute, e quello alla riservatezza.

Ricorderemo i conflitti tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute sul terreno dell’Ilva di Taranto o quello tra diritto al lavoro e alla privacy innescato dalle polemiche (infondate) sul braccialetto Amazon, ma questi tre diritti non si sono mai sfidati simultaneamente come è accaduto di recente.

Il conflitto si è consumato tanto sul terreno delle imprese che non hanno arrestato la produzione, agli albori del contagio da Covid-19, e di quelle (poche) autorizzate in tal senso dai provvedimenti del Governo quando esso è impennato, quanto su quello delle imprese costrette al lockdown.

Sul terreno delle imprese attive, il diritto al lavoro ha cantato vittoria mentre sono usciti  “sconfitti” sia il diritto alla riservatezza per i controlli invasivi predisposti nei confronti dipendenti, dalla misurazione delle temperatura all’indagine sui contatti dei 15 giorni precedenti, sia il diritto alla salute per il maggior rischio di esposizione al contagio  quando non sono state adottate misure adeguate.

Sul terreno delle imprese in lockdown, per converso, hanno cantato vittoria il diritto alla salute data la miglior tutela dei dipendenti che ne è derivata e il loro diritto alla riservatezza, in quanto  scevri da ogni controllo invasivo, ma è uscito sconfitto il diritto al lavoro.

Se la grave emergenza ha giustificato, in via eccezionale, gli esiti contrapposti di questo conflitto, lo stesso non può accadere per il tempo ordinario, o comunque meno straordinario, che si profila all’orizzonte, quello della cosiddetta “Fase 2”. Che invece chiama ad un prudente bilanciamento tra  i diritti coinvolti, tutti con dignità costituzionale.

Ed allora, è importante chiedersi  se questo bilanciamento  è realizzato dalle soluzioni che, nella prospettiva della ripresa, più si fanno strada, come verifiche sanitarie periodiche dei lavoratori, relativi test sierologici rapidi e app di tracciamento dei loro spostamenti.

Andando con ordine, le prime due soluzioni impattano sulla disciplina del trattamento dei dati sanitari dei lavoratori disegnata dagli articoli 5 e 6 dello Statuto dei lavoratori e che deve leggersi in combinato disposto con quella della privacy, come innovata dal Gdpr (Reg. Ue 679 del 2016). In sintesi, questi dati sono considerati altamente sensibili, il loro trattamento può aver luogo solo ad opera di soggetti competenti e nell’ambito di accertamenti ad hoc, concordati con le rappresentanze sindacali, a tutela della dignità e della riservatezza dei soggetti interessati.

E’ evidente che, se non intervengono provvedimenti legislativi in deroga, queste soluzioni si infrangono come onde sulla scogliera della disciplina in vigore. Ed infatti, rischierebbe un duro colpo il diritto alla riservatezza mentre la salute dei lavoratori non resterebbe del tutto garantita, restando in piedi un – seppur più lieve – fisiologico rischio di contagio.

Lo stesso può dirsi per le app di localizzazione dei lavoratori, utilizzabili nelle imprese, o di “contact tracing”, dir si voglia, sulla scorta di quella annunciata dal Governo, nota come “Immuni”. Anche in questo caso, infatti, le garanzie per la salute dei lavoratori non sarebbero assolute e sarebbe sacrificato il loro diritto alla riservatezza in violazione  dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, che invece vieta ogni genere di  controlli a distanza salvo particolari esigenze (ad esempio, controlli preordinati alla tutela del patrimonio aziendale). Ed ancora, come conciliare l’obbligo dell’accordo con le rappresentanze sindacali o presso l’Ispettorato del lavoro per i sistemi di tracciamento, previsto da tale disposizione per tutti i casi in cui essi non sono strettamente necessari ai fini dello svolgimento dell’attività del lavoro?

Se così stanno le cose, le soluzioni più illuminate non possono che provenire da quei particolari tipi di  tecnologia in grado di bilanciare i tre diritti protagonisti, senza lederne alcuno. I wearable device, anche a base blockchain, dotati di algoritmo intelligenti, o meglio sapienti, sono solo un esempio. Si tratta di dispositivi indossabili dai lavoratori capaci  di registrare il loro stato di salute (dalla pressione sanguigna al battito cardiaco ad un virus in circolazione), di allertarli di conseguenza su eventuali anomalie che lo riguardano e di captare, grazie a questi algoritmi, soltanto i dati necessari allo scopo. E non invece ogni spostamento personale, specifici valori ematologici, e più in generale le perfomance fisiche in tutta disinvoltura.

Da qui, anche la garanzia del rispetto di quei principi di necessità, proporzionalità, pertinenza o, in una parola sola, di minimizzazione del trattamento dei dati che il legislatore europeo impone. In definitiva, tertium datur. Di certo, occorrono, passi in avanti “ pensati”, senza quelle improvvisazioni che, ritornati alla normalità, non sarebbero giustificate.

La “Fase 2” richiede, in altri termini, uno sguardo lucido sulla realtà. Quello che dovrebbe adottare il “servant-leader” (potremmo dire i leader con spirito di servizio), nella formulazione di Robert Greenleaf: figure con alte responsabilità politiche che ascoltano, risanano, persuadono, amministrano e costruiscono comunità.

 

 

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