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La Spagna contro il turismo di massa

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Da inizio anno, in Spagna, migliaia di persone sono scese in strada per manifestare contro l’impatto del turismo di massa sui luoghi in cui vivono. Le proteste più grandi sono avvenute a Barcellona, a Malaga, nelle isole Canarie e nelle Baleari: a Palma di Maiorca, l’isola più grande delle Baleari, sono state organizzate due proteste nell’arco di tre mesi. Nonostante il turismo abbia rappresentato nel 2023 il 12,8% del Pil della Spagna, le sue conseguenze sui prezzi degli affitti e delle case, sul tessuto commerciale dei centri urbani, sull’ambiente e sul mercato del lavoro stanno diventando insostenibili per un numero sempre maggiore di cittadini.

La Spagna diventa una meta turistica relativamente tardi rispetto ad altri Paesi, come l’Italia e la Francia, ad esempio, che erano già tappe obbligatorie dei Grand Tour dei nobili ottocenteschi. L’industria del turismo spagnola inizia a formarsi verso la metà dell’Ottocento, per poi subire un forte battuta d’arresto prima a causa della guerra civile e poi per via della fallimentare politica economica dei primi decenni del regime franchista, che provoca una grande carestia. A fine anni Cinquanta, il dittatore Francisco Franco decide infine di aprire la Spagna al turismo di massa e investire i ricavi nell’acquisto di macchinari necessari per rivitalizzare le fabbriche del Paese. A questo proposito, il ministro dell’Informazione e del Turismo Manuel Fraga Iribarne inventa l’iconico slogan “Spain is different” e plasma l’immagine della Spagna come destinazione turistica ideale, nonostante si tratti, a tutti gli effetti, di una dittatura. Il turismo diventa quindi il motore del boom economico spagnolo: da un milione nel 1951, i turisti in Spagna arrivano a 14 milioni nel 1964 e 34 nel 1973. Nel 2023, il numero di presenze è arrivato a toccare gli 85 milioni.

Manifesti turistici spagnoli della fine degli anni ’50

 

Da circa dieci anni, il simbolo della rivolta al turismo è Barcellona: è qui infatti che nel 2014 i residenti della Barceloneta, ex quartiere marinaro della città, hanno dato il via alla prima manifestazione contro il turismo di massa in Spagna. Ed è anche qui che, nello stesso anno, venne sospesa la concessione di nuove licenze turistiche in tutta la città. Nei due mandati successivi, la sindaca Ada Colau confermò la decisione del suo predecessore e fece un passo oltre: vietò l’apertura di nuovi hotel nel centro storico della città e istituì un corpo di circa 10mila ispettori per individuare e sanzionare gli appartamenti turistici illegali. Nel giugno di quest’anno, il nuovo sindaco, Jaume Collboni, ha annunciato che, a partire dal 2028 la città non rinnoverà le licenze degli oltre 10mila appartamenti che vengono affittati a breve termine ai turisti. La misura non è ancora stata approvata in consiglio comunale e si prevede che alcune associazioni di categoria possano fare causa alla città per questa decisione.

Nonostante tutti questi sforzi, nel 2023 Barcellona ha registrato 26 milioni di presenze, a fronte di una popolazione di 1,8 milioni di abitanti, con conseguenze enormi: il prezzo medio degli affitti è di circa 1.200 euro e supera il salario minimo fissato dal ministero del Lavoro (pari a 1.134 euro), il tessuto commerciale dei quartieri si dissolve a favore di negozi di souvenir, gadget e catene di caffetterie. Su questo fronte, il sindaco Collboni ha annunciato anche un’altra misura: la sospensione delle aperture di growshops (negozi che vendono prodotti per coltivare e consumare la cannabis), negozi che vendono cover per i telefoni e saloni di pedicure e manicure, che negli ultimi anni si sono moltiplicati nella Ciutat Vella, il quartiere centrale della città.

Le misure di Collboni e dei suoi predecessori sono ritenute insufficienti però dall’Assemblea dei quartieri per la decrescita turistica, che riunisce più di un centinaio di associazioni cittadine e che a inizio luglio ha portato migliaia di persone a manifestare sulla Rambla (3mila persone secondo la polizia, 20mila secondo l’organizzazione). La protesta è stata ripresa dai media internazionali a causa della scelta di alcuni manifestanti di spruzzare i turisti con delle pistole ad acqua, facendo temere un ritorno degli episodi di turismofobia in città, che avevano raggiunto il picco nel 2017 con l’assalto da parte di un gruppo di attivisti di un bus turistico, ricoperto da scritte ostili ai visitatori.

Al di là della polemica, le principali richieste dei manifestanti riguardano, oltre al blocco delle licenze e l’eliminazione degli appartamenti illegali, la chiusura del terminal delle crociere nel porto di Barcellona, la riduzione del traffico aereo dell’aeroporto El Prat, migliori condizioni di lavoro per le persone che lavorano nel settore turistico, lo stop alla promozione pubblica del turismo e una migliore gestione dell’acqua (il piano anti-siccità della regione applicato a inizio anno infatti non prevedeva restrizioni per gli impianti turistici).

 

Ma se Barcellona ha avuto quasi un decennio per sperimentare modi per contrastare gli effetti negativi del turismo di massa, lo stesso non si può dire di Malaga, grande città andalusa e centro principale della Costa del Sol, che fino a pochi anni fa non era affatto una delle grandi mete della Spagna. Tra il 2016 e il 2024, gli appartamenti a uso turistico sono passati da 846 a circa 12mila, specialmente in centro, dove secondo una ricerca del giornale spagnolo El País il 20-25% degli alloggi è presente su Airbnb.

Negli ultimi anni, infatti, grazie a un processo di riqualificazione urbana, Malaga ha smesso di essere una città di passaggio per turisti diretti ad altre località della Costa del Sol o alle città più famose della regione, come Granada o Siviglia, per diventare un’importante destinazione turistica, che nel 2023 è stata visitata da 1,6 milioni di persone. Non solo: quella di Malaga è anche la provincia che più cresce demograficamente in Spagna, e la seconda in cui cresce di più il numero di residenti stranieri, che spesso la scelgono come località vacanziera permanente, e che spesso con un potere d’acquisto superiore rispetto a quello della popolazione locale.

Con l’aumento del numero degli affitti brevi per turisti o nomadi digitali e l’acquisto di case da parte di investitori o nuovi residenti provenienti dall’estero, il numero delle case disponibili diminuisce, mentre il loro prezzo aumenta. E, di pari passo, aumentano anche gli adesivi di protesta attaccati sulle pareti degli appartamenti turistici (spesso indicati con l’abbreviazione AT), sui quali si leggono messaggi come “AnTes esta era mi casa” (“primA quesTa era casa mia”) o “ApesTando a turista” (“puzzA di Turista”). Per tutti questi motivi, a fine giugno, migliaia di cittadini (circa 5mila per le autorità, 25mila per l’organizzazione) sono scesi in strada per chiedere una città “dove vivere, non dove sopravvivere”, secondo il motto scelto dal Sindacato degli inquilini e delle inquiline.

Nelle isole Baleari e Canarie, le conseguenze negative del turismo di massa si fanno vedere da anni, ma le politiche locali sono ben lontane da quelle che sono state proposte negli anni a Barcellona. “Anche se Fuerteventura è un’isola grande, sono arrivate tante persone in poco tempo e senza pianificazione. Non abbiamo acqua, mangiamo solo cibo importato, tutto è carissimo e il nostro patrimonio sta andando in rovina”, hanno spiegato gli organizzatori delle proteste dello scorso aprile, che hanno portato in strada circa 57mila persone per diffondere un messaggio chiaro: “Le Canarie hanno un limite”. Solo nel 2023, infatti, nell’arcipelago delle Canarie sono arrivati 15 milioni di turisti stranieri, a fronte di due milioni di residenti, e l’impatto di questo flusso turistico si vede non solo sul mercato immobiliare, ma anche sul sistema sanitario, su quello scolastico, sulle infrastrutture e sul patrimonio naturale. Tra le richieste dei manifestanti, infatti, c’è anche quella di introdurre un’ecotassa che aiuti la regione a raccogliere fondi per tutelare la biodiversità delle isole.

“Abbiamo bisogno di regolare l’arrivo di navi da crociera e aerei alle Baleari, limitare il numero di visitatori, approvare una moratoria che riduca gradualmente il numero di posti letto per turisti e controllare la compravendita di immobili da parte dei non residenti”, ha spiegato Pere Joan Femenia, portavoce della piattaforma Canviem el rumb, che negli ultimi tre mesi ha organizzato due manifestazioni contro il turismo di massa nelle isole Baleari: solo nell’isola di Maiorca, nel 2023, si contavano 12 turisti per ogni residente. Tra gli organizzatori c’era anche il sindacato delle cameriere ai piani, che hanno denunciato il grande paradosso di chi vive del turismo in queste isole. “I 1500 euro al mese che prendiamo non ci bastano se gli affitti arrivano a costarne 1200. Inoltre, qui il 21% della popolazione è a rischio di povertà, ma nel settore turistico manca la manodopera. Qualcosa non sta funzionando”, ha dichiarato Sara del Mar García, presidente regionale del sindacato.

Una nave da crociera davanti a Palma de Mallorca

 

E se finora l’allarme su l’insostenibilità dell’attuale modello turistico nel Paese è arrivato dalle isole e dalle città, i prossimi cittadini a dover scendere in strada saranno probabilmente quelli delle regioni del Nord, come la Cantabria. “C’è un interesse da parte del turismo nazionale e internazionale per il Nord [della Spagna]”, ha spiegato a Público Belén García dell’associazione Ecologistas en Acción. “Questo fenomeno ha a che fare con la crisi climatica e le estati sempre più lunghe e calde. Sta succedendo lo stesso anche sul mar Baltico su scala europea: luoghi fino a poco tempo impensabili stanno iniziando a diventare mete di vacanza”. La società di investimento maiorchina AB Capital, ad esempio, ha mostrato il interesse per le città di Langre e Loredo, che intende trasformare nell’”Ibiza del Nord” a colpi di progetti residenziali e campi da golf.

Ma se le conseguenze di questo modello turistico diventano sempre più evidenti e, talvolta, paradossali — lo spopolamento e l’invecchiamento della popolazione sono dinamiche, ad esempio, che interessano sia le grandi destinazioni turistiche che i villaggi più sperduti della cosiddetta “Spagna vuota” —, le soluzioni, quando vengono implementate, sono poche e il loro impatto si è dimostrato finora limitato.

In attesa di misure nuove o più ambiziose, il rischio è quello di cadere in una serie di trappole ideologiche che la scrittrice Anna Pacheco ha osservato durante il tour di presentazione del suo libro Estuve aquí y me acordé de nosotros, uno studio sulle dinamiche lavorative nel settore del turismo. “L’idea che non ci sia ‘spazio per nessun altro’ può trasformarsi in tempi relativamente brevi in discorsi anti-immigrazione che i partiti razzisti e xenofobi possono sfruttare a loro favore”, osserva Pacheco. Vale anche il contrario, ovvero: sì, qui c’è spazio, ma non per tutti, solo per il cosiddetto “turismo di qualità”, in cui Pacheco vede presupposti classisti. Infine, un altro rischio, quando si parla di lotta alla turistificazione è quello di evocare un passato idealizzato, in cui la presunta identità storica del territorio era ancora intatta. “Cosa significa dire che un centro è veramente autentico? A quale anno dobbiamo tornare, a quale secolo?”, chiede Pacheco. Domande a cui i cittadini spagnoli — ma non solo — dovranno trovare presto risposte, se non vogliono che altri lo facciano per loro.

 

 

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