I messaggi di Netanyahu all’America
L’aria compiaciuta di Benjamin Netanyahu durante il discorso tenuto a Washington il 24 luglio davanti al Congresso degli Stati Uniti è forse il segno più evidente del senso politico delle sue parole. Parole intervallate dalle acclamazioni dei deputati e senatori soprattutto Repubblicani: cinquantadue minuti, cinquanta ovazioni. Tra coloro che l’avevano invitato, il capo del governo israeliano ha trovato probabilmente l’unico auditorio al mondo, in questo momento, disposto a concedergli una tanto entusiastica approvazione, dato che persino in Israele il consenso che Netanyahu era tornato a raccogliere attorno a sé dopo la sconvolgente strage di Hamas del 7 ottobre è ormai consunto come uno straccio che ha lavato troppe volte lo stesso pavimento.
Le ovazioni dei Repubblicani – che, dobbiamo specificarlo, fanno comunque parte di un “rituale”, nell’accoglienza agli oratori invitati al Congresso – non hanno invece potuto mascherare le tante assenze e critiche tra i Democratici, e la freddezza di molti (ma non tutti) dei rappresentanti di quel partito presenti. L’assenza più grossa, quella di Kamala Harris, candidata in pectore contro Donald Trump alla Casa Bianca, tenuta ad essere lì in quanto presidente del Senato. Se i suoi impegni di campagna – era in Indiana – possono offrire una giustificazione, il fatto che nemmeno la numero due per protocollo, la senatrice Patty Murray dello Stato di Washington, si sia presentata, chiarisce la natura politica del gesto. Harris si riserverà di incontrare il primo ministro israeliano solo l’indomani, con Biden e in veste ufficiale, non facendo mancare le sue critiche, come vedremo sotto.
Forse qualcuno pensava che Netanyahu potesse utilizzare la sua allocuzione al Congresso per stemperare i toni, oppure offrire ai suoi ascoltatori un tono conciliatorio. Che potesse tener conto delle divisioni nella politica e nella società americana, anche considerando che tra i giovani nelle metropoli e nelle università la sua operazione militare contro Gaza è molto impopolare, e controversa anche in parti importanti dell’opinione pubblica. Gli ultimi mesi, d’altronde, hanno evidenziato senza appello che della carneficina in corso nella Striscia non si intravede né una tattica, né una pur pallida giustificazione politica, né dei minimi risultati concreti dal punto di vista della lotta al terrorismo, della sicurezza di Israele, degli equilibri regionali, dei rapporti con i palestinesi e la loro Autorità in Cisgiordania. Si contano invece quasi 40mila morti secondo le fonti locali: un numero agghiacciante ma che dovrebbe essere moltiplicato per cinque, secondo la pubblicazione scientifica The Lancet, se includessimo anche le vittime indirette dovute all’impossibilità di accesso al cibo e alle cure provocata dall’operazione militare israeliana. Hamas, invece, è ancora viva e vegeta. Mentre la direzione strategica di Netanyahu, in Israele, è ormai apertamente contestata persino dai militari.
Proprio come è accaduto nel discorso di Trump dopo l’attentato, invece, non c’è stato nessun tono conciliatorio. Sia Trump che Netanyahu, per averlo, dovrebbero rinnegare sé stessi. Invece: un continuo, aggressivo rilancio, che ha avuto l’effetto di una conferma. Il premier israeliano a Washington ha confermato uno dei “sospetti” che gravano sulla sua condotta politica dall’indomani del 7 ottobre, ossia quello di voler usare la ritorsione contro Gaza per assicurarsi di rimanere al potere, grazie allo stato di emergenza, fino al ritorno dell’amico Donald Trump alla Casa Bianca. Finché c’è guerra c’è speranza: questo sarebbe il vero significato del prolungarsi di un’operazione militare di cui il senso, altrimenti, sfugge.
E’ vero infatti che Joe Biden non ha fatto mancare da subito e fino ad oggi il sostegno diplomatico e militare degli Stati Uniti a Israele. Anche quando questa ha delegittimato, minacciato e intimidito le istituzioni internazionali, dalle Nazioni Unite alla Corte Penale dell’Aja, e le loro molteplici prese di posizioni e pronunce, l’ultima delle quali dichiara illegale l’occupazione israeliana della Cisgiordania. La Casa Bianca non ha reagito nemmeno di fronte alla scoperta di una campagna “alla Putin” orchestrata dal governo israeliano per influenzare mediante profili finti e fake news sulle reti sociali membri del Congresso americano. Si è prestata all’operazione mediatica Aid Pier, il “molo umanitario” costruito a Gaza, costato centinaia di milioni, e letteralmente naufragato, i pochi aiuti saccheggiati appena scaricati. E ha annunciato ricorso contro il mandato d’arresto spiccato dall’Aja proprio nei confronti di Netanyahu – ormai sola in questo, dopo il ritiro del Regno Unito di Keir Starmer. L’intesa tra Stati Uniti e Israele resta profonda e indiscutibile.
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Però, è anche vero che l’amministrazione Biden ha fatto pressione già ben prima del 7 ottobre contro il primo ministro israeliano, e ha continuato anche dopo, seppur in maniera più obliqua, ma spingendosi in qualche caso persino all’ONU ad appoggiare le richieste di cessate il fuoco. Ha severamente criticato la legge in discussione in questi giorni alla Knesset che qualificherebbe come “associazione terrorista” l’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi. In maniera cruciale, ha sempre respinto ogni tentativo del governo israeliano di trascinare l’Iran nel conflitto. Più chiaramente, in novembre, Biden ha stabilito delle “linee rosse” in cambio del sostegno americano, per il dopoguerra: no alla ri-occupazione israeliana della Striscia, niente deportazioni forzate dei civili fuori da Gaza, nessuna riduzione del territorio attribuito ai palestinesi. Linee rosse che sconfessano pienamente la visione e le idee di Netanyahu e dei suoi alleati della destra suprematista sulla questione palestinese, e che Donald Trump non farebbe alcuna fatica a cancellare, come dimostrano le tante concessioni fatte a Israele durante il suo mandato – riconosciute una per una nel discorso.
Qui c’è la chiave politico-ideologica delle parole pronunciate da Netanyahu al Congresso, mirate essenzialmente a uno scopo: spazzare via il gravoso e complesso lavoro compiuto dalla politica americana e in particolare dalle amministrazioni Obama e Biden nel liberarsi delle scorie ideologiche, delle tragedie umanitarie e dei disastri politici che avevano comportato le guerre in Iraq e in Afghanistan. Perseguite sull’onda di un doppio senso di onnipotenza teorica e affermata cecità pratica dalle amministrazioni di George W. Bush, e rialimentate dalla decisione di Trump di mandare all’aria l’accordo di distensione tanto faticosamente raggiunto con l’Iran nel 2015.
Proprio contro quell’accordo Netanyahu si era scagliato nella sua precedente allocuzione al Congresso, nove anni fa, sempre su invito dei Repubblicani, quando aveva lanciato i suoi strali contro Barack Obama che l’aveva voluto. Oggi ha invitato l’America a tornare sulla strada tracciata da Bush e da Trump. Il suo tono predicatorio, immaginifico e millenarista era rivolto in quella direzione. Ha dunque ignorato le implicazioni di quanto fatto nella Striscia (obiettivamente indifendibile persino da lui), traslando invece gli eventi in una specie di superiore e ultraterrena resa dei conti tra il bene e il male, che ha il doppio vantaggio di ammantare di ragioni morali la tragica cornice degli eventi, e di attagliarsi bene alla narrazione di propaganda trumpiana. Il punto, secondo il premier israeliano, che ricordiamocelo, parla anche all’opinione pubblica di casa sua, “non è la Palestina”: è invece “un asse del terrore guidato dall’Iran che sfida Israele, gli Stati Uniti e i nostri amici arabi moderati”. Il riferimento è all’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman, il Paese e il leader scelti da Trump come garanzia della stabilità in Medio Oriente, con gli Accordi di Abramo. Si è visto con che risultati.
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“Non è uno scontro di civiltà”, ha specificato Netanyahu utilizzando appunto il vocabolario delle guerre post 11 settembre, “ma uno scontro tra civiltà e barbarie”, “tra chi ama la vita e chi glorifica la morte”. Quello che facciamo a Gaza lo facciamo per conto di tutto l’Occidente, “la nostra vittoria sarà la vostra vittoria”, ha aggiunto, ovviamente pronunciando un’aberrazione, ma anche esponendo implicitamente una delle contraddizioni più gravi della politica internazionale euro-americana: i governi dei Paesi occidentali che tentano in varia misura di smarcarsi da Israele, e i Paesi del resto del mondo che invece li additano come complici.
Il capo del governo israeliano, che è laureato al MIT di Boston in architettura e dottorato in scienze politiche a Harvard, ha vissuto lunghi anni in Pennsylvania e padroneggia l’inglese-americano perfettamente, ha una relazione davvero profonda con il Congresso USA: quello del 24 luglio è stato il suo discorso numero quattro di fronte al parlamento americano, numero non raggiunto da nessun altro uomo di stato estero, nella storia. Ha sempre saputo toccare le corde giuste, rivolgendosi alla destra americana: nel 1996, la prima volta che parlò, si disse “ammiratore della forza morale dell’America, una forza che deriva direttamente dalla Bibbia e dunque dai precetti morali che noi ebrei abbiamo dato al mondo”. “Voi – insomma – siete gli eredi della nostra civiltà, e dunque avete il dovere, quasi il debito morale, di proteggerci per sempre”, disse allora, prima di chiudere la sua allocuzione chiedendo agli americani di pregare per il successo di Israele.
“Dateci più armi, e finiremo il lavoro prima”, ha concluso stavolta con sfacciato cinismo. Gli Stati Uniti hanno fornito dal 7 ottobre in poi aiuti militari a Israele per 12 miliardi di dollari – stanziamento che la maggioranza degli americani approva. Per il resto, nessuna autocritica, negazione totale sia della sproporzione nell’uso della forza di cui è accusata la sua operazione militare, sia di ogni responsabilità nella catastrofe umanitaria a Gaza. Netanyahu ha trovato invece parole per chi protestava fuori dal Congresso: “Ecco gli utili idioti dell’Iran”, li ha derisi, glissando sulla contraddizione tra i valori occidentali che pretende di rappresentare e il rispetto del pluralismo delle opinioni che questi comportano. Ha poi fatto i complimenti a quella confraternita universitaria del North Carolina che durante le proteste anti-israeliane in maggio ha impedito che la bandiera a stelle e strisce del campus “toccasse il suolo” (un radicato costume americano vuole che ciò non debba mai accadere, pena il più profondo oltraggio), scatenando di rimando i deputati Repubblicani nel coro “USA, USA”.
Non è un caso che questo tono incendiario e beffardo – con il quale Netanyahu ha trasformato abilmente il discorso in un ennesimo atto di distrazione di massa rispetto all’andamento fallimentare del conflitto – abbia innescato la feroce reazione della sinistra del Partito Democratico. “Per la prima volta nella storia un criminale di guerra parla al Congresso”, così Bernie Sanders. “Il peggior discorso di un leader straniero negli Stati Uniti”, così Nancy Pelosi. La deputata di Detroit Rashida Tlaib, di origini palestinesi, ha alzato durante l’intervento del premier israeliano un cartello con su scritto “Criminale di guerra” e “Colpevole di genocidio”. Anche perché la sinistra Dem è stata in questi mesi accesa sostenitrice della permanenza di Biden nella campagna elettorale contro Trump: i suoi rappresentanti politici devono vedersela con la scomoda accusa di ipocrisia, mentre i suoi simpatizzanti e militanti sono di fronte al dilemma se votare comunque il presidente uscente (o la sua Vice) oppure mollarlo, per aver fatto troppo poco per fermare Israele.
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Per un’elezione che si deciderà per una manciata di voti in una manciata di stati, anche il mal di pancia di un singolo elettore conta come un macigno sulla strada per la Casa Bianca. Ed è anche questo, la volontà di ricucire in qualche modo con una base delusa, che spiega l’assenza di Kamala Harris: la sua volontà di marcare una discontinuità. Per questo, nell’incontro ufficiale tra Biden, Netanyahu e Harris alla Casa Bianca il 25 luglio, mentre il presidente in carica esibiva familiarità e sorrisi con il capo del governo israeliano, e lo “invitava” a lavorare “rapidamente” per un cessate il fuoco a Gaza, la candidata in pectore è stata più perentoria e ha voluto sottolineare le sue profonde inquietudini sulle vittime civili. Per lei, sul tema, sarà difficile liberarsi del tutto dal sospetto di ambiguità. Ha promesso che “non tacerà” di fronte alle violazioni dei diritti umani.