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Violenza politica ed eversione negli Stati Uniti di oggi: l’evoluzione di una lunga eredità

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Il clamoroso attentato subito da Donald Trump il 13 luglio in Pennsylvania conferma una tendenza sociale che era già in corso da tempo: gli atti violenti a sfondo politico sono in aumento negli Stati Uniti, fino a influire in maniera sostanziale sull’arena pubblica del Paese. È ciò che sostiene ad esempio un report della John Hopkins University, sottolineando lo stato di «significativa erosione» della democrazia più antica del mondo. Altre indagini evidenziavano che l’anno successivo all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 circa uno statunitense su tre riteneva che la violenza contro il governo potesse essere giustificata. Secondo rilevazioni più recenti, il 23% degli americani (nel 2021 la percentuale era del 15%) ritiene che essendo «le cose andate così fuori strada, i veri patrioti americani potrebbero dovere ricorrere alla violenza per salvare il nostro paese». Come documenta Reuters, dal 6 gennaio 2021 ad agosto 2023 ci sarebbero stati almeno duecentotrentadue casi di violenza politica, la maggior parte dei quali legati a militanti di estrema destra e a supporter di Donald Trump.

Sempre secondo Reuters la violenza politica sarebbe tornata al picco segnato negli anni Settanta. Anche se a differenza di allora, quando gli atti violenti erano rivolti principalmente contro le proprietà, le violenze oggi sono rivolte verso gli individui. Un contesto che alimenta i timori che le violenze possano ripresentarsi all’indomani delle prossime elezioni, come rileva un sondaggio condotto quest’anno da CBS/YouGov in cui il 49% dei partecipanti ha affermato di aspettarsi atti di violenza da parte dei perdenti delle presidenziali di novembre. Mentre un sondaggio del 2022 di YouGov e dell’Economist evidenziava come il 43% degli statunitensi ritenesse probabile l’evenienza di una guerra civile entro il prossimo decennio.

Spettatori del comizio di Trump cercano riparo dopo gli spari contro il candidato repubblicano

 

La lunga strada della violenza politica

Alla base degli episodi di violenza politica degli ultimi anni è l’idea di una presunta minaccia esistenziale all’America e alla sua identità. Una minaccia che arriverebbe dalla globalizzazione, dall’immigrazione, dalle rivendicazioni delle minoranze e delle donne. Si tratta di un immaginario che propone un “ritorno al passato”, all’America dell’ideale rivoluzionario e all’autonomia dei singoli Stati rispetto al governo federale. Tale immaginario è alimentato da teorie cospirative, come quelle di QAnon (un gruppo di estrema destra che si propone di contrastare il cosiddetto “Deep State”), e ritiene che il governo, soprattutto quello federale, abbia tradito gli interessi del popolo.

A meno che non si tratti di Donald Trump. All’indomani dell’assassinio di George Floyd, del resto, fu l’allora presidente ad alimentare queste visioni in un discorso pronunciato nella data simbolica del 4 di luglio 2020. Nel suo discorso, Trump sosteneva che vi era una «minaccia crescente a ciò per cui i nostri antenati hanno combattuto», cioè che i manifestanti e i detrattori della cosiddetta Cancel Culture volessero distruggere l’identità e il portato culturale statunitense. Nell’affermare ciò, l’ex Presidente creava una distinzione tra i “veri” americani – come lui – e i “cospirazionisti” che «pensano che il popolo americano sia debole e molle e sottomesso» nonostante «il popolo americano sia forte e orgoglioso e non permetterà che il nostro paese […] sia preso da loro». Trump creava un nemico dipingendo alcuni cittadini come un-american, alieni alla Nazione, chiamando così all’intervento i suoi elettori appellandosi al secondo emendamento che «ci garantisce il diritto a portare armi».

 

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Le tensioni di cui parliamo hanno radici storiche profonde che risalgono agli albori della democrazia statunitense. Una democrazia che, nella sua storia, non ha mai smesso di confrontarsi sui perimetri di definizione di chi facesse parte della Nazione, e che è nata con un «difetto di nascita» – la schiavitù, la definizione è dell’ex Segretaria di Stato di George W. Bush, Condoleezza Rice, cui possiamo aggiungere l’esclusione delle altre minoranze e delle donne. Il perimetro della democrazia americana si è ampliato negli anni Cinquanta e Sessanta in seguito alle rivendicazioni da parte del movimento per i diritti civili e di altri movimenti, come quello femminista, a cui è seguita una vasta ed energica reazione conservatrice e suprematista sia all’interno che all’esterno del Partito Repubblicano. Si tratta delle cosiddette guerre culturali: il dibattito conflittuale su temi quali l’aborto, i matrimoni tra persone dello stesso sesso, i diritti delle donne, delle minoranze e dei Black Americans.

Trump si presenta come portavoce di una “maggioranza silenziosa” oppressa dai progressisti in America.

 

Tra diritti e reazione

Nei primi anni Cinquanta le aperture della presidenza di Harry Truman a certe istanze del movimento per i diritti civili, unite a sentenze della Corte Suprema come Brown vs Board of Education (1954) e alle iniziative come i boicottaggi degli autobus di Montgomery in Alabama, tra il 1955 e il 1956 grazie all’iniziativa di Rosa Parks – che, in quanto donna di colore, rappresentava una doppia minaccia: al primato maschile e a quello bianco – contribuirono a creare quella reazione conservatrice di cui si diceva. La reazione trovò poi sponda favorevole nell’opposizione alla candidatura e alla presidenza di John Fitzgerald Kennedy. Lo si vide, in particolare modo, durante le presidenziali del 1964, quando il Grand Old Party candidò Barry Goldwater con il quale iniziò la critica al big government che culminò poi nella presidenza di Ronald Reagan; alla base della candidatura di Goldwater, inoltre, era un movimento conservatore e white supremacist, contrario ai mutamenti socioculturali degli anni Sessanta.

Al termine del medesimo decennio, nel 1968, il governo federale approvò il Gun Control Act, una legge che cercava di limitare la vendita di armi in seguito agli assassini politici e alle violenze degli anni precedenti. La stessa legge è, per certi aspetti, il punto di partenza del dibattito che coinvolge tutt’oggi gli Stati Uniti sulla lettura gun rights, favorevole al diritto di portare le armi, del Secondo emendamento, di cui i suprematisti e molti supporter di Trump sono strenui sostenitori – anche se l’argomento rimane comunque in parte bipartisan. La contrapposizione tra gun rights e gun control – favorevoli a controlli anche stretti – è divenuta, in particolare, un fenomeno culturale caratterizzante gli ambiti della destra statunitense intorno alla fine degli anni Settanta, quando i vertici della National Rifle Association (NRA) vennero occupati da militanti radicali di destra vicini al Partito Repubblicano.

 

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Gli anni Settanta rappresentano uno snodo di grande rilevanza per quella che l’allora presidente Jimmy Carter definì, alla fine di quel decennio, una «crisis of confidence». Per molti statunitensi, infatti, gli anni Settanta vennero percepiti come anni di declino e di crisi. Sentimenti dovuti allo scandalo Watergate, alle tensioni interne ai partiti, ma anche alla fine della guerra in Vietnam e alla sensazione che l’America avesse perso quel momento d’oro toccato negli anni Cinquanta e Sessanta caratterizzato dai primi provvedimenti per la parità dei diritti per i Black Americans ma anche dal culmine di quel processo di integrazione degli ebrei iniziato negli anni Quaranta. Fu, inoltre, il decennio della crisi energetica cominciata nel 1973 che mise in crisi la narrazione dell’American way of life. La sensazione diffusa era quindi quella della fine di un periodo di progresso, percezione acuita inoltre dall’ondata di violenza criminale nelle metropoli.

Tra i cittadini più conservatori, questi elementi di «crisi» si sommavano ai mutamenti degli anni Cinquanta e, soprattutto, alla contestazione degli anni Sessanta. L’elettorato evangelico o comunque religioso trovò allora una sponda favorevole nella Christian Right, una fazione politica, ma non necessariamente un blocco unitario, composta da individui di confessione cristiana, in particolare evangelici, che tentano di influenzare la politica statunitense seguendo una lettura tradizionalista della Bibbia e conservatrice della società. Ad oggi la Christian Right è un blocco elettorale capace di influenzare le politiche a livello statale e federale.

 

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È stato rilevato che tra i gruppi più inclini alla violenza e sostenitori delle teorie cospirazioniste sarebbero i Repubblicani cristiani evangelici bianchi, spesso vicini alle posizioni della Christian Right. Tra i membri maggiormente cospirazionisti, i Democratici vengono considerati come delle forze sataniche dedite alla pedofilia e contrarie al cristianesimo. Una visione che porta alcuni di questi aderenti a commettere atti violenti e a difendere le posizioni gun rights anche come strumento potenziale di suprema difesa dei diritti individuali contro l’autorità – il punto, infatti, non sembra più essere il diritto a portare armi, ma quello di usarle. L’intreccio tra armi e religione è una costante dagli anni Settanta e viene giustificato con la teoria secondo cui il problema non sarebbero le armi, ma la presenza del male incarnato da quegli statunitensi percepiti come un-americans. In questa visione, i nemici della Nazione sarebbero armati e, pertanto, sarebbe necessario difendersi e prendere posizione in una contesa che non riguarderebbe solamente la battaglia per l’essenza dell’America, ma anche la più ampia contrapposizione tra bene e male, tra Dio e Satana.

Un attivista per la libertà di portare armi manifesta in Maine

 

Gli scenari insurrezionali individuali o collettivi

Sono, nelle righe precedenti, riassunti gli elementi essenziali che caratterizzano la conflittualità presente negli Stati Uniti e nei supporter di Trump: la reazione bianca e maschilista, la critica al big government e, allo stesso tempo, la paura di perdere lo status economico, una visione conservatrice della religione e il primato del popolo americano portato al suo estremo. Elementi che dagli anni Novanta in poi hanno assunto un carattere più marcatamente antiglobalista, ma che mantengono una componente estremamente forte di razzismo e di misoginia. Secondo alcuni studiosi quello del 6 gennaio 2021 sarebbe stato, infatti, un “white riot”. In base ad un’analisi disaggregata dei dati sulla provenienza dei 139 eletti che hanno votato contro la certificazione di Joe Biden emerge che il 70% proviene da aree suburbane non particolarmente dense in cui la popolazione bianca è il gruppo maggioritario e più ricco, nonostante dal 2000 questi primati siano in diminuzione. In tal senso il file rouge dagli anni Sessanta ad oggi sono le molteplici paure – di perdita di status economico, di perdita del controllo politico e sulla società – che trovano poi una sintesi nella paura più grande: perdere il white privilege.

Uno scenario insurrezionale, o da guerra civile, non è estraneo all’immaginario dell’estrema destra statunitense che dagli anni Settanta si è alimentato con volumi come i Turner Diaries (1978), un romanzo che narra di una “rivoluzionaria” guerra razziale negli Stati Uniti. Scritti come i Turner Diaries incarnano la realizzazione del desiderio suprematista bianco, tant’è che i Diaries avrebbero animato gli intenti di alcuni degli assalitori del 6 gennaio che avevano montato nei pressi del Campidoglio una forca, con l’intento di impiccare il vicepresidente Mike Pence accusato di tradimento nei confronti di Donald Trump. I Diaries, infatti, si concludono con il «giorno del cappio»: l’impiccagione dei traditori.

Negli Stati Uniti gli anni Settanta furono caratterizzati da un certo grado di conflittualità politica che in taluni casi dette luogo a degli stand-off: situazione di stallo in cui un contendente occupa un luogo e vi si asserraglia difendendolo con le armi dalle forze dell’ordine e, talvolta, l’esercito. Inizialmente gli stand-off avevano coinvolto principalmente formazioni afferenti alla sinistra o dei Native Americans, come a Wounded Knee nel 1973, ma arrivarono ben presto a coinvolgere anche formazioni di estrema destra, come il 7 dicembre 1984 sull’isola di Whidbey, a largo di Seattle. Al centro dello stand-off era il leader di The Order, Robert Hay Mathews, una cellula terroristica neonazista e suprematista il cui obiettivo era scatenare una guerra razziale negli Stati Uniti.

Gli stand-off furono, inoltre, una delle cause che hanno contribuito a generare il fenomeno della militarizzazione della polizia: la progressiva acquisizione di status, modus operandi, tattiche, addestramenti, armi, equipaggiamenti e mezzi dell’esercito da parte delle varie law enforcement statunitensi. La militarizzazione comporta un mutamento nella percezione della realtà e nelle competenze della polizia, così che essa veda la realtà circostante come ostile in maniera simile ad un militare. La militarizzazione spiega in parte – assieme al razzismo sistemico – l’eccessivo ricorso alla violenza, compresa quella mortale, da parte delle forze dell’ordine. Secondo i dati, infatti, nel 2023 la polizia avrebbe ucciso almeno 1.232 persone, un record. Sempre secondo i dati, i Black Americans vengono uccisi in una proporzione di 2,6 rispetto ai bianchi.

Ad oggi, la riforma delle law enforcement è argomento divisivo tra i cittadini statunitensi, ma è dagli anni Sessanta che nel Paese l’uso della forza da parte delle forze dell’ordine è oggetto di dibattito, quando l’allora presidente Lyndon B. Johnson incaricò una commissione per stabilire le responsabilità delle forze dell’ordine nei riots. Lo stesso fenomeno della militarizzazione iniziò del resto a svilupparsi a partire dagli anni Sessanta, anche a seguito del primo mass shooting coperto dai media – il cui autore, Charles Whitman, era un ex cecchino dei Marines. Il sostegno che molte amministrazioni locali continuano a dare ai programmi di investimento e non di riforma della polizia è dovuto a ragioni politiche che, a loro volta, sono legate alla percezione della criminalità tra gli statunitensi.

Nonostante, infatti, dagli anni Novanta il tasso di crimini, compresi quelli violenti, sia in diminuzione, con un record nell’ultimo anno, un numero crescente di statunitensi ritiene invece che la criminalità sia in aumento e che la sua riduzione debba essere tra le dieci priorità del governo. L’idea dell’aumento della criminalità viene sostenuta anche da Trump che ne fa una questione chiave della campagna elettorale, spesso legandola alla tesi secondo cui molti dei criminali sarebbero di origine centro o sudamericana, contribuendo in questo modo ad alimentare teorie razziste e cospirazioniste.

Poliziotti e manifestanti protestano insieme contro la brutalità delle forze dell’ordine ad Atlanta, in Georgia, dopo l’assassinio di George Floyd

 

Grab-bag extremist e militia movement

Ad oggi tra i fattori di maggiore rischio per la democrazia statunitense ci sono il fenomeno dei grab-bag extremist e quello del militia movement.

I grab-bag extremist sono gli autori della maggioranza degli atti di violenza politica negli Stati Uniti. Pur agendo in solitaria, senza complici e al di fuori di organizzazioni strutturate, i grab-bag si differenziano dai “lupi solitari” del passato – come Ted Kaczynski “Unabomber” – perché non possiedono un’ideologia precisa o un’ideologia relativamente coerente. Ciò perché le opinioni dei grab-bag extremist rispecchiano la frammentazione dei discorsi online: la loro peculiarità è, infatti, l’approccio eterogeneo alle convinzioni e alle fonti riunite non necessariamente in maniera logica o coerente. Alcuni elementi comuni, comunque, possono essere trovati.

La maggioranza dei grab-bag, infatti, segue le teorie cospirative di QAnon, è vicina alle posizioni trumpiane e all’idea delle elezioni rubate e ha una visione razzista, misogina, antisemita e antigovernativa che li porta a ritenere la realtà come deviata, ragione per cui ricorrono alla violenza per “salvare” il Paese. Nella formazione delle loro opinioni un ruolo centrale lo hanno i meme il cui linguaggio sfuggente e il ricorso all’ironia normalizza idee estremiste, intolleranti e violente. I meme riescono, infatti, a ridurre la complessità della realtà a una visione semplicistica o binaria, se non caricaturale e certamente stereotipata. La retorica dei meme è disinvolta e ciò porta i fruitori a trascurare i controlli sulla fattualità della fonte e a sottovalutarne le implicazioni, comprese quelle deumanizzanti.

A differenza dei grab-bag, il militia movement possiede un’agenda politica, la quale si intreccia con una forte componente religiosa. Trattandosi di un movimento è difficile quantificare il numero di miliziani presenti negli Stati Uniti, anche se i report indicano che il fenomeno è in aumento. Molti esponenti del movement hanno preso parte all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. Tra i casi che hanno suscitato maggiore scalpore fu, inoltre, il piano, sventato dall’FBI nell’ottobre 2020, di alcuni miliziani per rapire la governatrice democratica del Michigan, Gretchen Whitmer, in opposizione alle sue politiche anti-Covid.

Elemento caratterizzante dei miliziani è la militanza nelle file trumpiane e il culto delle armi e del Secondo emendamento e la forte opposizione all’immigrazione. I miliziani possiedono una visione cospirativa della realtà ed incolpano la maggioranza dei politici di avere tradito il popolo che avrebbero dovuto rappresentare, ma vedono in Trump un presidente capace di salvare l’America. In questo senso, il movimento si ritiene un’avanguardia che dovrebbe risvegliare il popolo per riportare l’America alla sua essenza – bianca, protestante, anti-federalista e favorevole al Secondo emendamento – anche a costo di ricorrere alla violenza.

La storia del militia movement si può dividere in quattro momenti. La prima parte è compresa tra la fine degli anni Sessanta e degli anni Ottanta. Il primo rilevante gruppo fu il Posse Comitatus, formatosi in Oregon nel 1969 ad opera di William Potter Gale, colonnello dell’esercito in pensione e ministro della Christian Identity Church, fase che si concluse all’incirca nel 1980. Il Posse Comitatus aveva una visione antifederalista – considerava gli sceriffi di contea il potere più rilevante – e promuoveva una visione suprematista bianca attraverso una lettura distorta della Bibbia. Una seconda e importante fase fu negli anni Novanta, quando di fatto si strutturò il movimento in maniera più simile a come lo conosciamo oggi, in contrapposizione al globalismo promosso sia da George H.W. Bush che da Bill Clinton e alla promozione di leggi maggiormente restrittive sulle armi.

Una sorta di legittimità politica il movimento la lesse nelle proposte del più volte candidato alle primarie repubblicane Pat Buchanan che alla convention del 1992 pronunciò il noto discorso della «religious war […] for the soul of America», con cui criticava il multiculturalismo, l’aborto, l’immigrazione e i diritti omosessuali. Tra gli episodi salienti fu l’attentato ad Oklahoma City del 1995 che costò la vita a 168 persone, messo in atto da due reduci dell’esercito afferenti al militia movement. In seguito all’episodio e al contrasto al movement messo in atto dalle forze dell’ordine, il tasso di incidenti violenti e il numero di miliziani sono scesi fino all’elezione di Barack Obama nel 2008, quando il movimento tornò a crescere in reazione al primo presidente di colore e alla preoccupazione per le posizioni dei democratici sul controllo delle armi e l’immigrazione. Inoltre, l’emergere del Tea Party, che esprimeva idee simili a quelle del militia movement, venne percepito da molti miliziani come una sorta di conferma delle loro opinioni.

L’attentato di Oklahoma City fu mirato contro un edificio federale, simbolo di uno Stato da combattere

 

L’ultima fase è quella iniziata con la campagna elettorale di Donald Trump nel 2016, candidatura letta anch’essa come un riconoscimento da parte dei miliziani, rafforzata dall’opposizione alle misure anti-Covid promosse a livello locale e dalle proteste per George Floyd. In quest’ultima occasione, i miliziani hanno iniziato a cercare lo scontro con i militanti di sinistra o, in generale, con i manifestanti e a proporsi per la sicurezza delle imprese locali o agli eventi di candidati politici per cui simpatizzano. Un’ulteriore crescita dei miliziani e delle loro attività è arrivata come conseguenza della teoria cospirativa secondo cui Joe Biden avrebbe “rubato” l’elezione del 2020.

Resta preoccupante, infine, il possibile coinvolgimento di membri delle forze armate o di reduci nelle fila del militia movement. Per quanto l’ampia maggioranza dei veterani e dei militari non si unisca al movement, il numero di miliziani con un background militare è in aumento. Le ragioni di tale coinvolgimento sono molteplici. Un ruolo centrale nel “reclutamento” lo ha il web, ma a spingere i veterani o i soldati ad unirsi alle milizie è, generalmente, l’idea che il migliore modo per affrontare il conflitto politico sia la lotta armata – un problema che riguarda il reinserimento dei veterani nella società – anche perché timorosi che ciò che hanno visto all’estero possa verificarsi in patria. Molti di questi veterani, infatti, ritengono di dovere continuare ad onorare i giuramenti prestati sotto le forze armate per difendere il paese di fronte a ciò che percepiscono come una minaccia esistenziale agli Stati Uniti.

 

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Una minaccia che, come si è visto, molti estremisti identificano come “autoctona” – dal vicino di casa, dall’elettore democratico e così via – e che pertanto rende più disponibili ad agire, anche perché convinti che non vi sia altra soluzione. Una visione frutto di molteplici problematiche che si sono stratificate nel tempo e che erodono la democrazia dal suo interno – nei suoi cittadini e nella fiducia nelle istituzioni che ne escono delegittimate – facendo venire meno uno dei suoi assunti fondamentali: il riconoscimento dell’avversario come soggetto legittimo. Parte del problema è in questa parola: riconoscimento. Un riconoscimento che si basa, a sua volta, sull’accettazione dell’ampliamento dei perimetri di definizione del popolo e che, quindi, comporta il superamento dei «difetti di nascita» della democrazia statunitense.