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Il fattore tempo negli accordi tra Arabia Saudita e Stati Uniti

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L’Arabia Saudita e gli Stati Uniti stanno finalizzando un accordo di mutua difesa che offre a Riyadh garanzie rafforzate in caso di attacco al regno, permettendo inoltre agli americani (come già ora) di utilizzare le basi in territorio saudita per difendere i loro interessi in Medio Oriente. Per i sauditi, la direzione strategica è tracciata: rinnovamento dell’alleanza politico-militare con Washington, normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele e creazione di uno Stato palestinese, ma anche proseguimento del dialogo con l’Iran.

L’Arabia Saudita vorrebbe chiudere l’accordo il prima possibile ma, specialmente dopo l’inizio della guerra fra Israele e Hamas, gli elementi che compongono l’intesa con gli USA sono, tra loro, fuori sincronia. E rischiano così di generare un cortocircuito politico per Riyadh. Rischio che potrebbe acuirsi se Donald Trump tornasse alla Casa Bianca: un’ipotesi che potrebbe spingere i sauditi a chiudere l’accordo prima del prossimo autunno.

Secondo quanto riportato da funzionari e da indiscrezioni di stampa, la versione iniziale dell’accordo – in discussione da molto prima dell’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre –  prevederebbe, oltre alle garanzie di sicurezza da parte americana, un robusto pacchetto di forniture di armi con l’accesso alla tecnologia militare più avanzata per il regno, la cooperazione con Washington nello sviluppo del nucleare civile saudita, la normalizzazione fra Riyadh e Tel Aviv e impegni precisi per la costituzione di uno Stato palestinese.

 

I perché di un accordo

L’Arabia Saudita persegue un accordo di difesa rafforzato con gli USA – un patto più verosimilmente di un trattato, che comporterebbe invece l’approvazione non scontata da parte del Congresso americano – per difendersi dall’Iran e dai suoi alleati armati non statali e proxy. Nella percezione saudita, il 2019 ha messo a nudo la necessità di rivedere la relazione speciale con gli Stati Uniti: l’attacco iraniano con missili e droni (seppur rivendicato dagli houthi dello Yemen) contro le installazioni di Saudi Aramco dimezzò la produzione petrolifera del regno per due settimane. Senza alcuna reazione militare da parte americana e nonostante “l’amico Trump” alla Casa Bianca.

Secondo i dati di ACLED, sono stati quasi 1000 i missili e i razzi lanciati dagli houthi contro l’Arabia Saudita tra il 2015 e il 2022, oltre 350 gli attacchi con droni; nel 2022, quattro attacchi houthi colpirono poi anche gli Emirati Arabi Uniti. Uno stillicidio, originato dall’intervento militare della coalizione a guida saudita contro il colpo di Stato degli houthi in Yemen.  Attacchi che solo la  tregua (scaduta) del 2022 ma di fatto ancora osservata dalle parti hanno fermato, grazie anche ai colloqui diretti tra sauditi e houthi.

Dunque, l’Arabia Saudita non intende più trovarsi nella situazione del 2019 e, oltre alla diplomazia regionale, ha investito moltissimo nella trattativa con gli Stati Uniti. Anche perché essa includerebbe la cooperazione nucleare fra i due firmatari. Lo sviluppo dell’energia nucleare in Arabia Saudita ha finalità civili, ma è indubbio che il nucleare rappresenti un fattore di prestigio nonché di deterrenza nei confronti del vicino Iran. Nel 2018, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman Al Saud disse chiaramente che se Teheran fosse arrivata a possedere un’arma nucleare, anche Riyadh avrebbe fatto lo stesso, concetto poi ribadito nel 2023.

Dalla prospettiva degli Stati Uniti, l’offerta di un patto di difesa dovrebbe agire da pungolo per spingere il regno saudita alla normalizzazione con Israele. E sarebbe un ulteriore passo in avanti per la cooperazione economica e militare tra attori che percepiscono l’Iran come una minaccia comune, seppur con sfumature significativamente diverse. In più, “l’arma” del patto di difesa aiuterebbe Washington a fare pressioni su Riyadh affinché limiti – come gli Emirati Arabi – la cooperazione in tema di tecnologie e difesa con la Cina, vero spauracchio americano nel Golfo.

 

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Con la consapevolezza che l’Arabia Saudita non intende ridurre né tanto meno rinunciare al multipolarismo, ma che ci sono settori iper-sensibili in cui i sauditi dovranno concedere qualcosa alle richieste degli alleati storici americani.

 

La sincronia che non c’è

Per l’Arabia Saudita, siglare l’accordo con gli USA – imperniato sulla difesa ma composto come visto da numerosi tasselli – è strategicamente necessario. Il problema, però, è che al momento esso non è politicamente conveniente. Infatti, il 7 ottobre e la guerra a Gaza hanno rimescolato le carte, riportando la questione palestinese al centro del tavolo; anche perché l’attacco di Hamas a Israele era proprio finalizzato a far saltare la stretta di mano fra sauditi e israeliani. E ora tutto si complica per l’Arabia Saudita.

Adesso, Riyadh non può riconoscere Israele fino a quando non vi sarà il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, nonché un piano politico credibile per il dopoguerra a Gaza. Anche perché il carico finanziario della ricostruzione e quello militare della gestione della sicurezza a Gaza rischia di essere soprattutto sulle spalle di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar, quindi del Golfo. E Riyadh, in più, non può permettersi di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele fino a quando non avrà ottenuto garanzie di sicurezza dagli Stati Uniti, per depotenziare il rischio che Teheran e suoi alleati e proxy nella regione la colpiscano per ritorsione.

Mohammed bin Salman non intende scegliere tra Israele e Iran. Con gli israeliani, i sauditi progettano future cooperazioni economiche nel Mediterraneo e l’accesso a tecnologie militari, proprio in chiave di difesa, soprattutto aerea, da Teheran. Ma i sauditi hanno ben chiaro che la convivenza politica con gli iraniani è altresì prioritaria, perché le riforme economiche post-idrocarburi di Vision 2030 necessitano di stabilità regionale per realizzarsi. La ripresa delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran nel marzo 2023 ha infatti permesso, nei mesi della crisi di Gaza, di scongiurare l’escalation in Medio Oriente. I sauditi  hanno coltivato il dialogo con i capi della Repubblica Islamica e continuano a farlo dopo la morte per incidente aereo del presidente iraniano e del ministro degli Esteri.

 

Biden, Trump e il dilemma saudita

Al momento, i molti tasselli del puzzle che formerebbero l’accordo di difesa tra Arabia Saudita e Stati Uniti non riescono quindi a comporsi. Per Riyadh, il dilemma riguarda i tempi della politica.

Finché c’è il conflitto a Gaza, i rischi di un eventuale accordo “largo” – che tenga insieme garanzie di difesa e normalizzazione con Israele come da piano originario – sono alti per Riyadh. Tuttavia, non è affatto detto che il regno saudita intenda aspettare il possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca per firmare, né che gli convenga politicamente. Infatti, è assai probabile che un’eventuale nuova presidenza Trump tornerebbe a una politica aggressiva nei confronti dell’Iran – che intanto sta accelerando nell’arricchimento dell’uranio – e punterebbe ancora forte sullo schema degli Accordi di Abramo del 2020 voluti proprio Trump.

 

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Stavolta, però, c’è la guerra nella Striscia di Gaza: una dinamica che impone a Riyadh estrema cautela nelle interazioni con Israele. Con molte probabilità, il contrario dell’approccio frettoloso che un’ipotetica nuova presidenza Trump potrebbe avere rispetto all’estensione degli Accordi di Abramo, con l’obiettivo di isolare l’Iran e ridurre –ove possibile- la presenza americana in Medio Oriente. Ciò metterebbe però ulteriore pressione all’Arabia Saudita affinché normalizzi le relazioni con Israele, con la possibilità che la tensione con Teheran risalga. Il fattore tempo complica così la strategia saudita.