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Il Sudafrica, Israele e l’accusa di genocidio

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Dopo il 7 Ottobre Ezra Yakin, veterano israeliano della strage di Deir Yassin, una delle più feroci del 1948, ha recuperato la sua uniforme. A bordo di una jeep, armato di megafono, ha invitato ogni ebreo con un vicino arabo a suonargli alla porta, e sparargli: per completare l’opera lasciata a suo tempo a metà. Ha 95 anni. Ed è la più solida tra le prove con cui il Sudafrica ha trascinato Israele alla Corte dell’Aja per genocidio.

Due membri della delegazione sudafricana (il ministro della Gustizia, Ronald Lamola, e l’Ambasciatore nei Paesi Bassi Vusimuzi Madonsela) nella Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja.

 

La citazione a giudizio sconcerta. Chiunque abbia un minimo di basi di diritto internazionale sa perfettamente che quello in corso a Gaza non è classificabile come genocidio. L’articolo 2 della Convenzione sul Genocidio, adottata nel 1948 dopo la Shoah, definisce il genocidio come la distruzione, in tutto o in parte, di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso compiuta attraverso una serie di azioni specifiche, come l’uccisione di membri del gruppo, o la deliberata imposizione di condizioni di vita atte a provocare la sua distruzione fisica. L’elemento che caratterizza il genocidio non è l’entità di un massacro, a cui l’accusa dedica 59 pagine su 84. Né è il mirare a un determinato gruppo in quanto tale. L’elemento essenziale è un elemento immateriale, è il cosiddetto dolus specialis: è l’intenzione di distruggere il gruppo.

Ed è esattamente quello che a Gaza manca. Basta esaminare i virgolettati selezionati dal Sudafrica nel tentativo di dimostrare il contrario. Da Netanyahu in giù, le parole di ministri e comandanti vari descrivono una guerra senza restrizioni, una guerra diversa dalle altre, spietata, e che travolge anche i civili: un po’ perché contro movimenti di resistenza, in aree densamente popolate, è sempre così, è sempre un Vietnam, un po’ perché Israele, in questo, non si sta impegnando molto – l’ha detto dall’inizio, non sarà una guerra di precisione. E in più, a Gaza il 43% degli abitanti ha meno di 14 anni.

Ma sono virgolettati del tipo: “Combatteremo fino a rompergli le ossa”. Il presidente Herzog. O il ministro della Difesa, Gallant: “Gaza non tornerà mai come prima. Demoliremo tutto”. Ben-Gvir, il ministro alla Sicurezza: “Anche chi celebra Hamas è un terrorista, e va eliminato”. O ancora, in ordine sparso: “Niente acqua, niente elettricità, niente gasolio fino al rilascio degli ostaggi”. “Volevano l’inferno? E avranno l’inferno”. “Avranno due scelte: Fare la fame o andarsene”. Fino a: “Sarà la Nakbah di Gaza”. Ma appunto: cosa è stata la Nakbah, nel 1948? Un’operazione di trasferimento forzato e ingegneria etnica per il consolidamento della maggioranza ebraica di Israele. Non un genocidio. Una catastrofe. E non solo per i palestinesi, bensì per Israele. Ma non un genocidio.

Il primo dei virgolettati, poi, è uno strafalcione. Il 28 ottobre, alla vigilia dell’invasione di terra, Netanyahu richiamando la Bibbia dice alle truppe dell’IDF: “Ricordatevi Amalek. E non risparmiate nessuno”. E per il Sudafrica, questa è incitazione al genocidio. Amalek è il capo degli Amaleciti. La prima tribù che attacca Israele dopo l’esodo dall’Egitto, con un attacco inatteso e immotivato. E per gli ebrei, Amalek è sinonimo del Male. E dell’antisemitismo. Dell’odio per gli ebrei in quanto ebrei. Quel passaggio si riferisce allo sterminio degli ebrei, degli ebrei come complemento di specificazione, non “degli ebrei” nel senso di “compiuto dagli ebrei”: complemento di agente. Tanto che sta appeso allo Yad Vashem. Al memoriale dell’Olocausto.

Tra l’altro, i virgolettati selezionati dal Sudafrica sono estremamente selettivi: da Netanyahu in giù, esistono molte altre dichiarazioni, molto più numerose, in cui si dice che l’obiettivo della guerra è neutralizzare Hamas. Che non sia un obiettivo realistico, è giuridicamente irrilevante. In questa guerra, il dolus specialis c’è, sì: ma nell’attacco di Hamas. Che è stato un attacco agli israeliani in quanto israeliani. Agli ebrei in quanto ebrei. Con l’obiettivo ultimo di cancellare Israele dalle mappe. Un obiettivo ribadito apertamente più volte. L’attacco del 7 Ottobre è stato senza dubbio un atto di genocidio.

 

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Qual è allora il senso di questa iniziativa del Sudafrica? Un paese tradizionalmente vicino ai palestinesi, per via di Nelson Mandela e dell’esperienza dell’apartheid; ma anche, a dirla tutta, un paese BRICS, ora, in una guerra che coinvolge l’Iran, e che non dispiace né alla Russia né alla Cina? Quale è il suo obiettivo? Certo non è il cessate il fuoco. La Corte dell’Aja ha il potere di imporlo, come misura temporanea urgente: ma ammesso che sia imposto, è stato imposto anche a Putin per l’Ucraina. Le decisioni della Corte sono vincolanti: ma come è noto, la Corte non ha poi i mezzi per imporne l’attuazione. Non ha un suo esercito. Una sua polizia. E allora? Inutile negarlo. Il senso di tutto questo è imporre altro: è imporre la parola genocidio. Consapevoli che si perderà la causa. Ma chissà tra quanto. Intanto, la parola entra in gioco. La parola circola. Finisce sulle prime pagine di tutto il mondo.

Naturalmente, contestare l’accusa di genocidio non significa dire che è tutto OK. Israele sembra essere responsabile di crimini di altro tipo, e su scala ampia e sistematica: crimini contro l’umanità. Su tutti, la persecuzione. Che l’articolo 7(h) dello statuto del Tribunale Penale Internazionale definisce come la privazione seria e deliberata di diritti fondamentali ai danni di un gruppo o di una collettività dotata di una propria identità. E che è compatibile con il tentativo di Israele, questo sì, largamente virgolettabile, di costringere i palestinesi di Gaza a trasferirsi altrove. Con un’operazione di ethnic cleansing, pulizia etnica. Un’operazione che non è certo di entità minore rispetto all’attacco di Hamas. Anzi. Perché diversamente dal 7 Ottobre, che è stato un atto di genocidio, ma compiuto dalla sola Hamas, i crimini contro l’umanità implicano il coinvolgimento dell’intero Stato, e spesso, dell’intera società. E non per un giorno solo.

 

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Ma alla giustizia, che si sarebbe potuta ottenere con un piano accusatorio più circostanziato e rispettoso dei principi del diritto internazionale, si è preferita la gogna: l’accusa di genocidio. Il Sudafrica vincerà magari la battaglia mediatica. Ma perderà in aula. E a quel punto, Israele passerà per essere innocente.