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Il dilemma dei confini europei

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Allargamento dell’Unione Europea: una volta l’espansione dello spazio politico continentale era vista come qualcosa di naturale, come respirare. La CEE, poi la UE, è fatta per allargarsi: chi mai vorrebbe stare fuori dall'”area commerciale più grande del mondo”, dalla “culla dei diritti dell’uomo”, dal posto dove c’è “il miglior stile di vita” – come gli europei amavano e ancora amano definire l’Europa?

Ma ora dire “allargamento” ci fa poco meno che paura: la UE non ha nuovi aderenti dal 2013 (Croazia) – e se potesse essere detto, non pochi vorrebbero l’esclusione di molti Paesi entrati nel nuovo millennio, quelli dell’infornata centro-orientale che include tra i tanti Polonia e Ungheria, Slovacchia e Romania. Non solo: l’Unione ha perso un membro, il Regno Unito, nel 2016, che per quanto possa rimpiangere quella decisione non sta affatto implorando a Bruxelles di rientrare.

L’Europa è l’unico continente al mondo i cui confini sono dati dall’immagine che i suoi abitanti hanno di sé: “è Europa”, “non è Europa” non dipende dalla geografia ma da alcuni standard che nel tempo, appunto, cambiano. L’Europa: un’incessante fabbrica di significati. Però, l'”Europa” che abbiamo in mente si sta restringendo. I muri e le barriere che la recintano, dentro e fuori, si stanno alzando, allungando, allargando.

E di certo in molti, nell’ultimo ventennio, hanno almeno soppesato l’idea di uscire da un’Unione Europea dalla forza economica incerta, incapace di costruire istituzioni politiche sensate che rappresentino democraticamente i suoi sempre meno giovani 450 milioni di abitanti, dall’attrattività appannata, tendente alla chiusura, dal peso diplomatico misero, e sconvolta e preoccupata da un numero di eventi ai propri confini (è semplicemente la storia che scorre) che non riesce a gestire, dai quali teme di essere sopraffatta.

Allargamento ha smesso così di essere sinonimo di superamento di quelle fratture epocali che avevano spaccato l’Europa. Come quella tra NATO e Patto di Varsavia, magari, ma anche quella tra regioni del continente dal diversissimo passo culturale e politico-economico, come Scandinavia e Penisola iberica, Benelux e Mitteleuropa, Inghilterra e Grecia, e via dicendo.

Per diventare un problema di opportunismo politico: rigettare la candidatura della Turchia che era in piedi da lunghi anni ha contribuito a consolidare il potere di Erdogan. Oppure potremmo dire: l’Unione Europea ha perso l’occasione di dimostrare che un Paese islamico potrebbe tranquillamente farne parte. “E’ Europa” il luogo dove è stato steso da Giustiniano il Corpus iuris civilis, compendio del diritto romano e base del diritto civile odierno? E se dentro la UE si è risolta la questione dell’Irlanda del Nord, e quella basca, perché non sarebbe potuto succedere con i curdi e i ciprioti? Ma chi può negare allo stesso tempo che l’ingresso di un Paese di 85 milioni di abitanti, pari alla Germania per peso demografico, avrebbe sconvolto gli equilibri politici dell’Unione? Ankara avrebbe più seggi nell’europarlamento di Francia, Italia o Spagna: meglio di no.

 

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Giusto o no che fosse, escludere la Turchia ha privato l’Unione Europea e i Paesi che ne fanno parte di una formidabile opportunità geopolitica: quella di proiettare i propri confini in un’area dall’immenso valore strategico, che si estende dal Mar Egeo al Caucaso e alle sorgenti del Tigri e dell’Eufrate, che va dalla Bulgaria alla Siria, che tocca il Mar Nero e il Mediterraneo, che guarda alla Crimea e all’Egitto. Dove della “garanzia di pace” che la UE pretende di essere ci sarebbe parecchio bisogno. Questa considerazione non dovrebbe essere trascurata quando si parla di Ucraina: perché vedere la cooperazione con l’Ucraina come un semplice obbligo morale, un peso che dobbiamo caricarci in nome dei nostri valori (e che vorremmo tanto non avere, giusto?), anziché come un’opportunità? Un’opportunità bella grossa, non solo perché sarebbe il Paese più grande dell’Unione Europea (e poco popolato: non andrebbe a cambiare gli equilibri a Bruxelles), ma anche per il suo peso economico e lo spirito imprenditoriale, per i suoi rapporti già ben consolidati con il resto del continente, per il suo valore politico (magari ci risparmiamo la prossima invasione) e quello strategico: tutto questo rende l’Ucraina ben diversa da ogni altro Paese al momento candidato, e persino meritevole di una corsia preferenziale.

Proprio l’invasione dell’Ucraina e la guerra scatenata da Putin hanno costretto gli europei a domandarsi “è Europa?” a proposito di molti altri territori scomodi, di cui saremmo tentati di dimenticarci, ma il cui possibile ingresso nella UE è reso d’attualità da considerazioni geopolitiche assenti nel passato. Ad esempio, la sgradevole constatazione che centri di potere di rilevanza e aggressività sempre maggiore stanno prosperando proprio appena fuori, e non dentro, le frontiere dell’Unione Europea. Sono anche loro capaci di agire da calamite politiche – qualità di cui gli europei pensavano di avere l’esclusiva, ai tempi in cui si pensava di allargare l’Unione persino a pezzi di Medio Oriente, come Libano o Israele. E lo fanno spesso in maniera più efficace, dato che la potenziale proiezione diplomatica e culturale europea resta frammentata in una trentina di pezzetti.

E allora, che si fa con l’Ucraina devastata? Con la Serbia, “piccola Russia”? E gli asteroidi della ex Yugoslavia, ci cadranno addosso? E l’Armenia, schiacciata tra Russia e Turchia? E la Moldavia e la Georgia, a un passo dalla guerra? E anche, che si farebbe con la Scozia e la Catalogna o le Fiandre, dovessero essere indipendenti un giorno? Che ne pensa, la culla della democrazia, costretta da una tremenda contraddizione tra il ritardo nella costruzione di strutture politiche comuni funzionanti (d’altronde anche quelle degli Stati membri si stanno degradando) e l’urgenza con cui la questione geopolitica si pone? Cosa dire alla gente che in quei Paesi sventola nelle piazze la bandiera blu con le stelle come garanzia o speranza di indipendenza dall’impero di turno?

I paesi candidati all’ingresso nell’Unione Europea

 

Una florida tradizione politico-letteraria individua la peculiarità “europea” nella capacità di rispettare e valorizzare l’autonomia individuale o singolare, delle persone ma anche delle entità politiche e organizzative, di fronte allo strapotere centralista intollerante e imperiale di carattere “asiatico”, dove l’individuo è un granello di polvere. La guerra tra le città greche e l’impero persiano sarebbe il primo scontro tra queste opposte visioni, che si sarebbero poi riproposte nel tempo in varie forme. Certo, si potrebbe dire che dal continente che ha prodotto regimi fascisti, nazisti e comunisti in serie non dovrebbero essere impartite lezioni di questo tipo, che sono il classico prodotto di un secolare senso di superiorità. Eppure non è difficile nell’attualità vedere l’Unione Europea come entità dove il pluralismo politico e individuale è tutelato, di fronte a un rampante imperialismo “asiatico” che invece implacabilmente lo schiaccia.

Il punto è che bisogna essere all’altezza delle aspettative, mentre l’ideale non coincide affatto con il contenuto del pacco che riceviamo a casa. Sono bastati pochi anni perché in Africa subsahariana la UE perdesse molti dei suoi alleati, sebbene sembrasse impossibile: se ci sono bandiere che sventolano, da quelle parti, sono quelle russe. Ci vorrebbe ancora meno perché ciò accadesse in Europa, anche perché i meccanismi di potere di Bruxelles, come la regola dell’unanimità o la struttura nazionalista del voto alle elezioni europee o l’assenza di una carta costituzionale, permettono facilmente un sabotaggio dall’interno e offrono un ottimo scudo agli interessi nazionali su quelli sovranazionali. La UE non ha nemmeno un vero bilancio, con cui offrire compensazioni economiche rapide ai suoi amici. E spesso chiede moltissimo. Non è difficile dividere l’Europa e le sue decine e decine di staterelli: Stati Uniti, Russia e Cina lo sanno bene. Le città greche, battuti sì i persiani, continuarono però a litigare e querelare tra loro, finché un bel giorno si accorsero di essere diventate una provincia romana.

Il grande allargamento a est fu festeggiato con il lemma “back to Europe” – a proposito di Europe mentali: il socialismo reale era europeo negli anni ’50, non lo era più negli anni ’90. Ma quella riconciliazione politica è considerata adesso dalla parte occidentale del continente se non uno sbaglio una decisione avventata. La UE dovrà avere ben altre spalle e gambe rispetto a quelle odierne per reggere un ulteriore ampliamento a regioni fragili e sensibili, contese e periferiche, come i Balcani, l’Ucraina o il Caucaso.