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Il Brasile polarizzato, e il prossimo presidente a caccia di moderati

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Il quadro che emerge dai risultati delle elezioni brasiliane è quello di un Paese prevalentemente conservatore, dove il centro e le posizioni politiche moderate stanno perdendo terreno. Ora, la campagna per la conquista della Presidenza dello stato non è più una battaglia di idee tra destra e sinistra, ma tra Lulistas e Bolsonaristas.

“Bolsonaristas” e “lulistas”

 

Svolta conservatrice

Il Brasile si è decisamente orientato verso il conservatorismo. Questa è la diagnosi che emerge dal primo turno delle elezioni generali del 2 ottobre, in cui sono stati rinnovati le assemblee statali, i governatori degli stati, nonché i deputati e i senatori federali.

A Luiz Inácio Lula da Silva, in corsa per un terzo mandato non consecutivo, sono mancati 1,8 milioni di voti per essere rieletto presidente del più grande Paese dell’America del Sud. Sarebbe stato eletto se non ci fosse stato un così alto tasso di astensione, il 20,9% (circa 32,6 milioni di elettori). “L’astensionismo è la spiegazione del perché Lula non ha vinto le elezioni al primo turno”, riporta il sociologo Antonio Lavareda dell’Instituto de Pesquisas Sociais, Políticas e Econômicas.

Lula ha ottenuto il 48,43% dei voti e per ora è il favorito al ballottaggio del 30 ottobre. Ma chi pensa che questo porterà il Brasile di nuovo verso un orientamento progressista, sbaglia. Lula, spiegano gli analisti, è “un’eccezione in un’immensità di conservatorismo”.

Il suo rivale, il Presidente in carica Jair Bolsonaro, ha ottenuto un sorprendente 43,2% delle preferenze, un risultato simile a quello delle elezioni del 2018. Nessun sondaggio lo aveva previsto; nella migliore delle ipotesi, per Bolsonaro si poteva immaginare una forbice tra il 35% e il 38%. “È significativo che Bolsonaro non abbia perso voti, considerato che la grande parte dei brasiliani giudichi il suo governo un disastro”, dice la sociologa Esther Solano dell’Università federale di San Paolo (Unifesp). “Ma il problema non è Bolsonaro, è il bolsonarismo. È chiaro che questa corrente ha un potere simbolico e una capacità attrattiva e di mobilitazione molto forti. Il bolsonarismo, come campo sociopolitico e come movimento, è molto vivo ed è qui per restare”.

I suoi 51 milioni di voti (contro i 57,2 milioni di Lula) sono la prova che né i gravi errori commessi durante la pandemia né le sue proposte autoritarie per controllare la Corte Suprema e porre in dubbio l’esito delle elezioni (Bolsonaro ha detto che potrebbe non riconoscere i risultati in caso di sua mancata vittoria) hanno suscitato grande impressione o dissenso tra i suoi sostenitori. In realtà, il presidente ha aumentato la sua base elettorale: nel primo turno del 2018, Bolsonaro aveva ottenuto 49,2 millioni di voti.

Ma ciò che rende evidente che il Brasile sia ora dominato da un movimento neoconservatore, fondato sui cardini “Dio, Famiglia e Libertà”, è la nuova composizione del Parlamento (Congresso e Senato). Il grande vincitore è il Partito Liberale (PL) di Bolsonaro, che è riuscito a eleggere 99 deputati (quasi un quinto del numero totale dei 513 seggi) ed è diventato il partito di maggioranza relativa del Congresso. Inoltre, 11 dei 14 ex ministri di Bolsonaro presentati come candidati alle elezioni sono stati eletti. Tra questi anche Ricardo Salles, ex ministro dell’Ambiente costretto alle dimissioni nel 2021 dopo che la polizia aveva indagato sulla sua sospetta partecipazione al traffico di legname illegale dalla foresta amazzonica.

Questi risultati hanno portato alcuni analisti a concludere che Bolsonaro sia riuscito a fare in Brasile qualcosa di paragonabile a quanto aveva fatto Donald Trump negli Stati Uniti: a fidelizzare un vasto elettorato profondamente scontento della classe politica, disposto a seguire un leader, e non più i partiti politici. “Il voto di Bolsonaro nel 2018, come quello di Donald Trump negli Stati Uniti due anni prima, ha avuto la sua origine più profonda in elettori scontenti che si sono sentiti abbandonati o ignorati dalla classe politica. Si è trattato di un elettorato frustrato, sia a sinistra che a destra”, afferma la sociologa Solano.

Un’altra ragione di fondo per capire la forza elettorale di Bolsonaro è quanto sia riuscito a catturare i voti tradizionali del centro e della destra moderata, tradizionalmente rappresentati in Brasile dal PSDB, il Partito della Democrazia Sociale Brasiliana dell’ex presidente Fernando Henrique Cardozo (1995-2003). Il PSDB è passato dai 54 deputati del 2014, quando il suo candidato Aécio Neves aveva raggiunto il secondo turno delle elezioni presidenziali insieme a Dilma Rousseff, ai 13 deputati di queste elezioni. Prova del suo tracollo è che il PSDB in queste elezioni ha perso, per la prima volta in 28 anni, il governo dello Stato di San Paolo, dove ora il favorito al ballottaggio è un ex ministro di Bolsonaro.

 

Ballottaggio: alla ricerca del centro

Considerato il risultato del primo turno è chiaro che la strategia elettorale dei due candidati si fondava sulla polarizzazione: Lula chiedeva al popolo un terzo mandato per salvaguardare la democrazia, Bolsonaro si presentava come l’unico capace di frenare la “corruzione sistemica” di cui accusa da sempre la sinistra.

Questa politica di estremi, con attacchi personali molto duri, ripetuti per tutta la campagna elettorale, preoccupa gli esperti. Il sociologo e analista politico Sérgio Abranches avverte sulla corrente di disprezzo che l’incitamento all’odio politico e il ricorso ai sentimenti di repulsione può generare verso un rivale politico quasi disumanizzato. “Questa non è una polarizzazione come le altre. È totalmente diversa da quella che abbiamo vissuto nel 1994 e nel 2014 [con il PSDB di centrodestra e il PT di Lula]. Quello era un periodo in cui il PT credeva che il PSDB fosse un orrore, un partito reazionario espressione degli interessi degli imprenditori e dei banchieri. La critica si basava su valori politici. Ora invece non è più così; ora la scelta è: amare o odiare. È una miscela esplosiva di risentimento e intolleranza. Non c’è spazio se non per l’antipeteismo e antibolsonarismo“, spiega Abranches, scrittore e autore dei libri O intérprete de borboletas (2022) e Democracia em Risco (2019), che affrontano il tema del radicalismo politico in Brasile.

Anche il settore imprenditoriale, largamente favorevole a delle posizioni più moderate, come il “terzo polo” di centro della senatrice Simone Tebet (terza candidata più votata con il 4,16%), teme i pericoli di un Brasile dominato da “una polarizzazione rovinosa che durerà per tutta la prossima legislatura”, secondo le parole di Antonio Carlos Pipponzi, presidente del Consiglio di Amministrazione del gruppo farmaceutico RaiaDrogasil.

I dati delle organizzazioni civili Justiça Global e Terra de Direitos, che dal 2016 monitorano la violenza politica in Brasile, mostrano che rispetto alle elezioni del 2018 nel 2022 la violenza politica è cresciuta del 400%. Durante la prima fase della campagna elettorale (1° agosto-2 ottobre), sono stati registrati 121 episodi di violenza, addirittura con gli omicidi di militanti di entrambe le parti politiche. Facebook e Instagram hanno dichiarato che prima del primo turno in Brasile sono stato rimossi 600.000 contenuti politici violenti e d’incitazione all’odio.

Tuttavia, Lula e Bolsonaro, se vogliono vincere, non dovranno puntare sui loro soliti elettori, ma piuttosto cercare voti al centro e tra gli indecisi. Perché saranno loro, secondo gli esperti, quelli che determineranno chi governerà il Brasile dal 1° gennaio. I sondaggi danno un notevole vantaggio a Lula: 51% contro il 42% di Bolsonaro.