Errori e successi parziali in Afghanistan: ricordare per capire
Sono giorni difficili per chi ha un interesse per le vicende afgane, che abbiamo visto scorrere sotto i nostri occhi. Dapprima con incredulità, poi con rassegnazione, cercando di allacciare i fili che legano insieme la storia recente.
Conosciamo bene le domande che vengono fatte, ma le risposte che si ricevono sono molto diverse fra loro. Abbiamo visto il Presidente degli Stati Uniti dichiarare con una certa freddezza, che l’unica opzione realistica era abbandonare il paese e diversi analisti concordare in nome della “Realpolitik”.
La reazione dell’opinione pubblica è stata invece di partecipazione e di sgomento davanti alle immagini di Kabul, con persone aggrappate ai carrelli degli aerei e poi precipitate (di cui abbiamo nome e cognome), bambini consegnati dalle madri ai soldati occidentali, disperati per il peso morale da sostenere.
L’osservazione spontanea è: “come è possibile che un movimento islamista, già sconfitto a suo tempo, possa prevalere sugli Stati Uniti e sull’intero Occidente?”.
Le vicende sono così intricate, con il concorso di elementi così diversi fra loro, che una risposta perfetta è impossibile. Ma cerchiamo di andare avanti con ordine.
L’11 Agosto 2003 ero a Kabul insieme al Consiglio Atlantico perché la NATO aveva preso la decisione storica di avviare la sua prima operazione” fuori area”, dal nome significativo di “Enduring Freedom”. Era un segno di solidarietà con gli Stati Uniti.
La capitale era praticamente deserta e ovunque erano evidenti i segni di distruzione, miseria e assenza di ogni vita civile. Vi fu una cerimonia in uno dei pochi edifici possibili con i rappresentati delle Nazioni Unite e l’intero governo afgano (cfr. dell’autore “La strada per Kabul”, Il Mulino 2009).
Da lì partì questa avventura internazionale – con molte facce – che si è conclusa in questo agosto 2021. Alla fine della cerimonia molti ragazzi afgani vollero una foto con me, e mi sembrava allora un segno di fiducia. A nome del Consiglio, avevo fatto un intervento pubblico con la promessa di aiuto.
Una domanda oggi frequente riguarda gli obiettivi che ci si poneva in questa missione da svolgere in un paese lontano e difficilmente raggiungibile. Joe Biden ha dichiarato che si voleva evitare che dall’Afghanistan partisse un nuovo 11 Settembre negli Stati Uniti e che lo scopo era di sradicare il terrorismo.
In verità non vi è mai stato un obbiettivo finale formalmente riconosciuto come tale. Però la sensazione dominante era quella di ricostruire un paese, a pezzi come pochi altri nel mondo. Che dall’invasione sovietica del 1979 aveva visto solo atroci violenze, miseria e desolazione. Dove metà della popolazione era dovuta fuggire per non morire di fame nei rigidi inverni. L’unica cosa che abbondava era una grande quantità di armamenti di ogni tipo e di tutte le provenienze.
Appare quindi naturale che la comunità internazionale, Nazioni Unite in testa, volessero concorrere a cambiare le cose e dare una mano agli afgani, ognuno con le sue competenze.
Da lì sono partite tante iniziative, nei settori più vari, a cui hanno concorso ONG di tutte le estrazioni. Dobbiamo rivolgere un pensiero a tutti coloro che hanno percorso le strade polverose dell’Asia Centrale con lo scopo di migliorare le condizioni degli altri. Naturalmente, questo comprendeva anche l’idea di sostenere l’embrione di governo nazionale e le nascenti strutture politico-amministrative. Per aiutarle a trovare un loro assetto, più conforme al pluralismo e ai diritti personali. In conclusione, si trattava di concorrere a mettere in piedi un paese decente.
Il senso comune, almeno in quei primi anni, era che saremmo andati via appena l’Afghanistan fosse stato in grado di camminare con le sue gambe.
Nel 2010 la NATO e l’Afghanistan conclusero l’accordo “Enduring Partnership”. Diceva fra le altre cose che l’Alleanza avrebbe contribuitio al “sustained development of Afghan institutions”. Quindi, niente esportazione della democrazia a tutti i costi, ma neppure la lotta al terrorismo come obbiettivo principale!
Non si può riannodare il rullino della storia, ma ho la sensazione che le cose siano peggiorate dopo il 2014, quando “Enduring Freedom” si è conclusa con l’uscita delle forze dispiegate dai paesi NATO.
Al suo posto è subentrata l’operazione “Train and Equip” con il solo obiettivo di addestrare le strutture militari afgane. L’Italia vi ha partecipato, insieme ad altri, svolgendo questo compito con serietà, ma le regole d’ingaggio erano strettissime. Come combattere con una mano legata dietro la schiena, e gli effetti si vedono.
Si è parlato molto della NATO, ma è bene ricordare che l’Alleanza non ha mai avuto un ruolo politico o esercitato influenza sul governo di Kabul. Il suo ruolo riguardava la “sicurezza” nel modo descritto e con effettivi sempre ridotti. Quindi non è corretto parlare di un suo fallimento.
Un capitolo importante dove la comunità internazionale non è ancora organizzata è quello dell’assistenza allo sviluppo. Ricordo che Kai Eide, rappresentante delle Nazioni Unite, diceva che solo metà dei paesi lo informava sui propri progetti. In ogni caso ognuno faceva le proprie scelte secondo le regole nazionali.
Detto tutto questo, il paese è comunque diverso da come era vent’anni fa.
“The hill we climb” (titolo di una nota poesia di Amanda Gorman) può essere un modo di rappresentare le vicende afgane. Non siamo certo giunti in vetta, comunque ci sono stati visibili miglioramenti. È sorto un parlamento, movimenti politici, televisioni e radio indipendenti, l’istruzione è migliorata, senza parlare della condizione femminile. Perciò non dobbiamo considerare un fallimento tutto quello che è stato fatto.
Le cose sono precipitate con l’accordo fra Stati Uniti ed Emirato Islamico dell’Afghanistan, concluso in Qatar il 29 febbraio 2020. Voluta da Donald Trump, questa intesa (ufficialmente segreta, ma che circola ampiamente) preannunciava esplicitamente il ritiro delle truppe americane e dovrebbe essere letta in dettaglio per capire bene il contesto complessivo.
Il governo legittimo ne era escluso e doveva subire questa umiliante vicenda dove gli Stati Uniti parlavano da soli con il loro “nemico mortale”. I Talebani non hanno comunque rispettato l’accordo poiché esso prevedeva un dialogo politico inter-afgano e la rottura dei rapporti con Al-Qaida.
In parallelo, negli ultimi due-tre anni gli Stati Uniti hanno ridotto drasticamente la loro presenza militare e annunciato la partenza definitiva per il primo maggio 2021.
Sul versante della politica interna afgana – l’altra faccia della medaglia – dopo l’uscita di scena del Presidente Karzai (settembre 2014) e le vicende di cui sopra, le cose sono peggiorate e sono nate dispute interminabili fra leader rivali ed etnie diverse. Soprattutto per il dissidio fra il Presidente Ashraf Ghani e il Primo Ministro Abdullah, nato da elezioni nazionali contestate.
È quindi vero che vi siano molte responsabilità da quella parte, poiché il governo appariva molto debole per le sue divisioni interne e amministrative.
Era anche noto che l’esercito non poteva ancora camminare con le sue gambe, avendo numeri gonfiati, mancanza di una tradizione nazionale, e regole inadeguate alle consuetudini locali. Negli scontri con i Talebani gli americani dovevano quasi sempre intervenire. Sulla carta esiste un’aviazione afghana, che però non può alzarsi in volo se non con l’assistenza tecnica dei contractors USA.
In conclusione, era chiaro che la partenza definitiva americana preannunciava la vittoria talebana.
La domanda successiva è: cosa si poteva fare? Penso che sarebbe stato possibile restare con una presenza a bassa intensità, però sufficiente a rassicurare la società afgana che non sarebbe stata lasciata al suo destino. Dopo aver sperato in un futuro dignitoso in un paese che lentamente stava cambiando e in cui avevamo fatto crescere delle aspettative.
La decisione di Biden è del tutto comprensibile in base agli umori dell’elettorato e alla “Realpolitik”. Però si può aggiungere che i grandi valori comprendono la generosità, l’assistenza, la solidarietà con i più deboli.
Certo si sono susseguiti molti errori. Nel primo decennio si è puntato troppo sulla soluzione militare e si sono persi uomini e risorse senza riuscire a vincere sul campo. I Talebani potevano contare sull’aiuto del Pakistan, non mancavano di finanziamenti, di proventi dalla droga.
Si sarebbe dovuto fare di più per far crescere la politica nazionale, forse anche condizionando gli aiuti. Una volta di più si dimostra che le elezioni sono solo una parte del cammino verso la democrazia, che è invece un insieme di comportamenti che devono crescere dentro la società. Era auspicabile un “approccio complessivo” che riguardasse i movimenti politici, ma anche le istituzioni locali, una migliore amministrazione e servizi.
Nelle forze armate, in un ambiente ancora in gran parte clanico, sono state proposte procedure anglosassoni. In Afghanistan le tradizioni sono diverse e si fa la guerra con modalità individuali, su piccoli gruppi. Non si dirà mai abbastanza che la motivazione principale sta nella difesa della propria famiglia e del proprio territorio.
Il Pakistan è stato poi rifugio, finanziatore e consigliere dei Talebani. Un tema difficile (io stesso sono stato a Islamabad nel maggio 2006 incontrando il Presidente Musharraf) perché il paese è molto ambiguo e si sarebbe dovuti essere meno accomodanti.
La comunità internazionale deve poi spendere meglio i suoi soldi e coordinarsi di più per dare un senso complessivo ai vari progetti nel paese.
Questo non basta a giustificare oggi l’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Come si è detto, sono state fatte molte cose buone, sono nate aspettative diffuse che abbiamo incoraggiato. Non sappiamo se la vicenda afgana sia realmente conclusa nei termini che vediamo. Sarebbe comunque un errore pensare che i diritti personali, i valori fondamentali, un governo responsabile siano obbiettivi irraggiungibili. Possiamo imparare dagli errori fatti come anche dalle esperienze positive.