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Il Sudest asiatico alla ricerca dell’equidistanza vaccinale

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Il governo indonesiano ha reso noto il 17 marzo che 1,2 milioni di operatori sanitari avevano già ricevuto due dosi di vaccino dall’inizio della campagna vaccinale in gennaio. Un numero pari all’82,25% del totale e una piccola vittoria sul fronte della strategia anti pandemica per l’Indonesia, il paese-arcipelago che, secondo al mondo per popolazione solo a India, Cina e Stati Uniti con oltre 275 milioni di abitanti, ha varato la più vasta campagna di vaccinazioni del Sudest asiatico – regione del mondo in cui vivono circa 700 milioni di persone.

In Indonesia la distribuzione del vaccino fatica però a raggiungere i distretti o le isole più remote delle circa 17mila che compongono il Paese. Per ora Giacarta comunque ha utilizzato circa 9 milioni e mezzo di dosi e solo meno della metà dei vaccinati ha ricevuto la doppia dose. In gran parte si tratta del cinese Sinovac Biotech sono state consegnate già oltre un milione di dosi di AstraZeneca (anche grazie al programma Covax), pur se il programma ha subito una battuta d’arresto come in altre parti del mondo.

 

Al di là dei singoli casi – che vedremo nello specifico – un fatto salta all’occhio nella gestione dei vaccini in questa fetta di mondo: nonostante la vicinanza che geograficamente li colloca nel “cortile di casa di Pechino” e nonostante discrete donazioni di dosi, i Paesi del Sudest asiatico sono stati ben attenti a non affidarsi al solo Sinovac. E non per una scelta solo sanitaria o logistica. Nel bilancino dei rapporti tra le nazioni dell’Asean (l’associazione regionale di 10 Paesi dell’area), ognuno ha cercato il proprio equilibrio. Guardando sia a Nord, sia a Ovest ed Est. Anche considerando la bassa incidenza della pandemia in relazione ai ben più colpiti continenti europeo e americano, almeno a giudicare dai dati ufficiali.

Tradizionalmente teorica dell’equidistanza tra Stati Uniti e Cina, la città-stato di Singapore (5,7 milioni di abitanti, 60mila casi e solo 30 decessi finora) ha iniziato la sua campagna vaccinale a fine dicembre e, a metà marzo, si avvicinava alla somministrazione di quasi 800mila dosi, con oltre mezzo milione di persone che avevano ricevuto almeno la prima inoculazione. Per ora la Città del Leone usa solamente Moderna (dal 17 marzo) e Pfizer-BioNTech perché Sinovac è ancora sotto osservazione in attesa di luce verde dalle autorità sanitarie.

Con 333mila casi e 1200 morti su 32 milioni di abitanti, la Malaysia è forse però il caso più singolare (con il Vietnam) di una totale scelta di equidistanza, anche se la preferenza è andata a Pfizer-BioNTech: con l’azienda americana è stato siglato un accordo per 12,8 milioni di dosi. In febbraio il Paese ha intrapreso un programma di vaccinazione che mira a coprire l’80% degli abitanti entro un anno. Oltre all’accordo con Pfizer, i malesi si sono comunque anche assicurati la britannica AstraZeneca, e hanno stretto un accordo con il russo Gamaleya Research Institute e le cinesi Sinovac e CanSino (con cui stanno valutando di sostituire il possibile acquisto del monodose statunitense Johnson & Johnson). Sulla carta, la Malaysia dovrebbe essersi garantita oltre 66 milioni di dosi di vaccino, più che sufficienti per coprire l’intera popolazione.

Il Vietnam ha avviato inizialmente contatti con AstraZeneca, ma anche con Pfizer-BioNTech, Sputnik, Sinovac. Il National Institute of Hygiene and Epidemiology (NIHE) di Hanoi ha anche firmato un accordo con Medigen Vaccine (Taiwan) per una fornitura da 3 a 10 milioni di dosi. Medigen sta attualmente lavorando con l’americano National Institutes of Health in vista del lancio a breve di un nuovo prodotto. Ma il Vietnam lavora anche a un suo vaccino in collaborazione con l’Institute of Vaccines and Medical Biologicals di Nha Trang e l’Icahn School of Medicine di New York oltre all’organizzazione non profit americana PATH. Un equilibrio globale venato di orgoglio nazionale.

All’opposto, nelle Filippine (110 milioni di abitanti, 663mila casi e poco meno di 13mila decessi) c’è un  piano vaccinale che dovrebbe coprire almeno 70 milioni di persone nel giro del 2021 per il quale Manila ha scelto Sinovac. Le prima vaccinazioni sono iniziate solo a fine febbraio, con un lotto regalato da Pechino, che continua a corteggiare il presidente filippino Rodrigo Duterte con l’obbiettivo di allontanarlo dalla tradizionale alleanza con gli Stati Uniti – benché i filippini non siano così calorosi verso  i cinesi. Se l’operazione avrà successo dipenderà dai tempi: le  restrizioni sono ancora in vigore e la presidenza ha fatto sapere che non si riparlerà di riaperture se non quando ci saranno in magazzino almeno due milioni di dosi. Quanto ai rapporti tra Pechino e Manila, nonostante anche le Filippine abbiano ambizioni territoriali nel Mar cinese meridionale, dove la Cina vuole espandere il proprio raggio d’azione, sono effettivamente andate migliorando negli ultimi anni e la scelta di Sinovac non appare dunque casuale. Tanto meno i regali. In ogni caso, la comunità imprenditoriale locale – oltre 30 grandi imprese – ha firmato un accordo per acquistare almeno 2,6 milioni di dosi di vaccino AstraZeneca.

In Cambogia – che all’inizio 2021 registrava qualche centinaio di casi e nessuna vittima – una nuova ondata ha fatto registrare un aumento improvviso di casi (oltre 1700) e 3 decessi: il regime di Hun Sen dovrebbe dunque importare vaccini sia dalla Cina sia dalla Russia con una scelta di campo molto netta: i rapporti con Pechino sono ottimi mentre Mosca ha già avviato la produzione destinata alla Cambogia. Il piccolo e isolato Laos (49 casi e nessun decesso), con una popolazione di 7 milioni di abitanti, sta  sperimentando Sputnik e discutendo con la Cina sull’acquisizione di rifornimenti. Il sultanato del Brunei (206 casi e un morto) ha aderito al programma globale Covax e si aspetta di avere il vaccino nel primo trimestre del 2021 con scorte sufficienti per coprire il 50% della popolazione (sono in corso trattative con altri fornitori) mentre Timor Est (326 casi e nessun decesso) ha scelto Gavi Alliance.

Con quasi 28mila casi e poco più di 90 morti su 70 milioni di abitanti, la Thailandia si è attrezzata per iniziare la sua campagna vaccinale entro la metà del 2021: ha scelto AstraZeneca ma anche un vaccino sviluppato localmente e ha avviato contatti con la Oxford University. Caso a sé è il confinante Myanmar che, dopo aver resistito alla prima ondata, ha visto un aumento della pandemia dal settembre scorso: i pochissimi casi registrati sino ad agosto sarebbero ora scalati a 142mila, con oltre 3mila morti. I dati però sono assai poco attendibili, con il Paese precipitato nel caos a seguito del golpe militare del 1° febbraio. Il Myanmar, ormai al collasso economico (già la pandemia aveva fatto chiedere dal governo di Aung san Suu Kyi al FMI un nuovo finanziamento di 372 milioni di dollari dopo un primo contributo a giugno di 356.5), ha un sistema sanitario (in sciopero) che ormai cura quasi solo l’emergenza scatenata dalla durissima repressione dell’esercito che ha ormai superato i 250 morti. I dati sono dunque inaffidabili così come lo è la prospettiva di una corretta pratica vaccinale. Il Myanmar aveva chiesto i vaccini all’India, mentre Pechino aveva promesso in regalo ad Aung San Suu Kyi 30mila dosi. Ma il futuro del Paese resta avvolto dalla nube del golpe..  Secondo Asean Briefing – che fa il punto sui piani vaccinali delle 10 nazioni aderenti – il Myanmar sta cercando assistenza dai programmi Gavi e Covax, mentre l’Australia sarebbe disposta a fornire aiuti finanziari. Ma la valutazione è difficile perché sanzioni ed embargo stanno complicando ogni alternativa.

L’Asean sta intanto valutando l’introduzione di un certificato di vaccino  digitale come mezzo per rilanciare viaggi commerciali e turismo. Dal canto suo l’Australia, seppure priva di copertura vaccinale sufficiente a iniziare un piano di immunizzazione su larga scala ha offerto sostegno finanziario per aiutare l’approvvigionamento in diversi Paesi. E’ un tassello importante per comprendere le mosse del cosiddetto “asse “occidentale” asiatico, rappresentato da Australia e Nuova Zelanda, preoccupati – non meno di Giappone, Corea del Sud e Taiwan – dell’avanzata cinese nella vasta area dei Paesi del Sudest.