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Perché Mike Bloomberg ha perso la sua scommessa

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Quello di Michael Bloomberg nel 2020 si è rivelato come uno degli investimenti peggiori della storia dell’economia – e della politica. Di certo i i voti presi al Super Tuesday sono i più cari di sempre: dividendo i soldi spesi per i suffragi ottenuti, si arriva a un “costo” di circa 300 dollari l’uno. Prima del 3 marzo, l’ex sindaco di New York aveva speso quattro volte in pubblicità televisiva quanto investito da Sanders, Warren, Biden, Buttigieg e Klobuchar assieme: quasi mezzo miliardo di dollari, la metà dell’intera campagna presidenziale di Obama. Certo, vista la magnitudo della ricchezza del candidato Bloomberg, quasi 62 miliardi di dollari secondo Fortune, si tratta dell’equivalente dell’acquisto di una bicicletta per una famiglia media.

Bloomberg non era presente sulle schede delle primarie in Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina, perché aveva deciso di puntare tutto proprio sul Super Tuesday. I milioni spesi per promuovere la sua candidatura gli hanno consentito di salire rapidamente nei sondaggi, passando da percentuali sotto al 5% a una media che si aggirava intorno al 15. Poi sono venuti i dibattiti in tv e le controversie, ed è cominciato il declino. Se si esclude il territorio delle American Samoa, il risultato migliore è venuto dal Colorado con il 21%. Altrove si oscilla tra l’8% e il 15%. Non un granché, per chi aspirava alla Presidenza. E per questo, dopo aver radunato il suo staff per ragionare sul futuro, Bloomberg ha deciso di ritirarsi. In fondo un’alternativa moderata a Donald Trump e capace di raccogliere consensi i Democratici l’hanno espressa: è Joe Biden.

Come mai un tecnocrate che si presenta come quasi infallibile ha fatto dei calcoli su se stesso tanto sbagliati? Il problema per Bloomberg è che ciascuno dei fantasmi che i suoi avversari hanno usato per attaccarlo aveva un fondamento di verità, e ne colpiva profondamente la credibilità in segmenti importanti del voto per i Democratici.

Vediamo di cosa si tratta. La politica di “stop&frisk” (ferma e perquisisci) applicata dall’ex sindaco di New York ha visto per anni gli afroamericani della Grande Mela venire perquisiti in strada in numeri non paragonabili a quelli dei bianchi: nel 2011, anno record per fermati dalla polizia, furono controllate 685mila persone: l’88% non aveva commesso reati, il 53% erano neri, il 34% latinos, il 9% bianchi. La sproporzione è palese, dato che i bianchi sono il 42% degli abitanti di New York. L’ex sindaco ha difeso la sua politica (accusata non solo di essere discriminatoria, ma anche brutale) in numerose occasioni e in video e audio che sono ricomparsi nelle settimane che hanno preceduto il Super Tuesday: quando è venuto il momento di ammettere di aver sbagliato, durante il primo faccia a faccia con gli altri candidati al quale partecipava, ha spiegato che dopo una valutazione aveva scelto di sospenderla. Sul palco però c’era anche Joe Biden, che gli ha ricordato che fu l’amministrazione Obama a fare pressioni in quel senso. E Bloomberg non ha avuto nulla da rispondere.

Sempre nel dibattito, quando la candidata Elizabeth Warren lo ha attaccato violentemente per gli accordi di segretezza sottoscritti  con un numero indefinito di donne – che avrebbero subito insulti o maltrattamenti da parte del loro boss, Michael Bloomberg – la risposta è stata vaga e inefficace. Quegli accordi infatti esistono; li nominò velatamente anche il New York Times all’indomani dell’annuncio della candidatura, spiegando perché Bloomberg era un concorrente “problematico”.

Warren incalza Bloomberg durante un faccia a faccia prima del Super Tuesday

 

Il terzo aspetto indigeribile per l’elettorato Democratico, il più importante, riguarda la ricchezza personale, l’idea stessa di poter usare le proprie sconfinate risorse per costruire la campagna. Durante queste primarie  abbiamo osservato come una porzione crescente dell’elettorato statunitense non abbia in simpatia i miliardari. Sanders e Warren, i due candidati che esprimono le idee della sinistra del partito, e che si scagliano con regolarità contro il potere di Wall Street, delle lobby e dei ricchi nella politica e nella società USA, rappresentano sommati circa il 40% della base Democratica.

Già nel 2016 l’establishment vicino al potere, quella rete di relazioni politico-economiche pilastro delle candidature presidenziali classiche, aveva subito un colpo mortale: prima durante le primarie, sia da Bernie Sanders che ne faceva un argomento di accusa contro Hillary Clinton, che da Donald Trump, che scalava il partito Repubblicano con forze solo sue, in opposizione ai classici rapporti di potere interni a quel partito. La vittoria di Trump certificava infine l’esistenza di questo orientamento prevalente nell’opinione pubblica. Questo sentimento di stanchezza e lontananza nei confronti della politica nazionale e delle élite economiche è ancora forte, quattro anni dopo, nella società Usa. Anche di più di quanto la rimonta di Biden non faccia intuire.

Nel 2018 il partito di Sanders, Biden, Warren e Buttigieg ha ottenuto una sostanziosa vittoria alle elezioni di midterm grazie a un’affluenza record delle minoranze, delle donne, dei giovani. Sono proprio le tre constituency che non gradirebbero affatto una candidatura Bloomberg, per i casi di cui abbiamo riferito.

Ma c’è di più: l’ex sindaco non è un “vero” Democratico (essendo stato in passato anche repubblicano) e, come Bernie Sanders, è salito sul treno del partito dell’asinello per diventarne il leader – ma sempre minacciando di presentarsi come indipendente nel caso non ce l’avesse fatta. Come ha ricordato ancora Warren durante il primo faccia a faccia al quale ha partecipato, nel 2012 Bloomberg sostenne il senatore Scott Brown, eletto a sorpresa dai Repubblicani in Massachusetts negli anni in cui furoreggiava il Tea Party. Difficile per un elettore democratico convinto scegliere un candidato così. Non a caso il luogo dove i sondaggi hanno assegnato un ottimo risultato all’ex sindaco è la Florida: ci vivono molti pensionati newyorchesi benestanti ed esprime un voto poco militante per eccellenza. Pensionati, non politicizzati: quell’elettorato a cui intendeva parlare Bloomberg. Che è un blocco importante alle elezioni presidenziali, ma molto meno nelle primarie Democratiche.

Bloomberg in un suo comitato elettorale a Miami, Florida.

 

Cosa ha fatto pensare a Bloomberg che la sua potesse essere una candidatura capace di raccogliere il consenso dei Democratici durante primarie tanto combattute? Innanzitutto la fiducia in se stesso e nell’idea che una figura di risolutore di problemi, tecnocratica ed esperta potesse piacere alla maggioranza degli americani. Tanto più che sul cambiamento climatico e la legislazione in materia di detenzione di armi da fuoco, temi cruciali per i Dem, Bloomberg ha posizioni chiare e piani solidi.

L’idea era che in un’America caotica come quella di Trump il buon senso tecnocratico e pragmatico fosse la risposta. E probabilmente lo è: nei confronti diretti con il presidente, l’ex sindaco è tra coloro che ottengono risultati più lusinghieri assieme a Biden e Sanders. Il problema è che una eventuale candidatura Bloomberg pescherebbe probabilmente sì voti tra i repubblicani a cui la presidenza Trump non piace, ma perderebbe voti a sinistra. In primarie nelle quali per settimane il socialdemocratico Bernie Sanders ha dettato l’agenda, far fuggire l’elettorato di sinistra significa perdere.

La seconda idea di Bloomberg è che nell’era dei Big Data, le risorse bastano per capire dove e come posizionarsi: si investono milioni, si aprono uffici ovunque, si assume uno staff qualificato, si fanno passare al setaccio miliardi di micro dati, localizzandoli, e si sa cosa dire a ogni gruppo, contea, fascia d’età.  E così Bloomberg ha assunto 2.000 collaboratori, aperto 214 uffici in 43 stati, speso decine di milioni in pubblicità mirata sulle reti sociali, pagato una serie di influencer su Instagram e altri social network.

Per fortuna però, nonostante il peso crescente dei dati, serve ancora la capacità dei candidati di connettersi umanamente e anche fisicamente agli elettori. E le operazioni sul campo, i volontari, non possono essere dei mercenari, ma persone davvero convinte ed entusiaste. A Bloomberg è mancata la capacità di entrare in connessione con l’opinione pubblica: la sua operazione sul campo era posticcia. L’esempio perfetto è la California: 25 uffici per l’ex sindaco, uno solo per Biden, ma i due candidati hanno ricevuto un numero simile di voti – mentre a vincere è stata la macchina entusiasta di Sanders

L’altra scommessa sbagliata fatta da Bloomberg si chiama Joe Biden. Per mesi, mentre l’ex sindaco costruiva la sua corazzata dal nulla, la campagna dell’ex Vicepresidente arrancava. Con la vittoria in South Carolina, tutto è cambiato. Il ritiro e gli endorsement di Pete Buttigieg e Amy Klobuchar hanno risolto un grosso problema a Biden, che sebbene rimanga un candidato senza un messaggio forte e con una campagna male organizzata, ha una capacità di guardare in faccia gli elettori che nessuno sembra eguagliare.

Come la stragrande maggioranza degli elettori Democratici, Bloomberg sembra ossessionato dalla necessità di sconfiggere Trump: i suoi spot erano tutti assalti al presidente. Dopo il ritiro, lo splendido scambio di tweet con il Presidente (vinto dal team di comunicazione di Bloomberg) ne è l’esempio perfetto.

Il Super Tuesday ha fatto capire al miliardario che non sarà lui a caricarsi sulle spalle il compito di sconfiggere “il male”. Bloomberg ha però due possibilità per per rendersi più che utile alla causa Democratica: la prima sono i soldi da donare, magari usandoli per costruire campagne indipendenti ferocemente anti Trump, facendo un po’ il gioco sporco. La seconda è la quantità di dati elettorali che ha accumulato in questi mesi: la campagna Biden appare ancora  molto all’antica e piena di difetti organizzativi e di messaggio, probabilmente l’ex sindaco di New York potrebbe dare una mano in questo senso. Sarebbe un investimento rischioso – Biden non ha la certezza di vincere – ma meno disastroso di quello fatto puntando su se stesso.