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Libia ed Iran: perché l’Italia ha bisogno di una visione strategica

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Sarà che l’Italia è al centro dello spazio euro-mediterraneo, come ha ricordato opportunamente il Presidente Mattarella nel suo discorso di fine d’anno. Ma questa posizione geografica non genera di per sé una strategia geopolitica. Le premesse, in effetti, non ci sono: l’opinione pubblica continua, in larga maggioranza, a non (pre)occuparsi della sicurezza nazionale. Scenari di conflitto, eventuale ricorso alla forza, spese militari sono argomenti che interessano poco. E quando esplode una crisi acuta, da ultimo la prova di forza di Donald Trump con il regime iraniano, la tendenza prevalente è sempre quella di non schierarsi o di attribuire a Washington la responsabilità di nuovi rischi potenziali.

“Ma perché Trump se la prende con gli iraniani? La situazione era tranquilla, volevamo fare un viaggio a Pasqua a Teheran”. Le domande che senti in giro sono esattamente queste, purtroppo: al confine fra un neutralismo ormai imperante, un anti-americanismo che riaffiora in molte occasioni e un globalismo da turisti irresponsabili. In tempi duri come questi, di guerre vicine e lontane e di accesa competizione fra grandi potenze, gli italiani non hanno la minima idea di dove collocare il proprio interesse personale e nazionale.

Non aiuta affatto, naturalmente, che la classe politica sia – in media – ripiegata sulle vicende domestiche. E veda la politica estera quasi solo come un’eredità di impegni già assunti, mentre la realtà è che i teatri più vicini stanno evolvendo in maniera profonda. Guardiamo al caso della Libia, per noi decisivo: abbiamo subito, più che voluto, l’intervento del 2011 che ha abbattuto il regime di Gheddafi; abbiamo poi affrontato il problema essenzialmente in termini migratori e non abbiamo mai davvero preso atto né della debolezza del governo di Al Sarraj (riconosciuto dalle Nazioni Unite) né dell’importanza dell’appoggio russo ed egiziano al generale Haftar, il dominus di Bengasi che è da mesi all’offensiva verso Tripoli. E alla fine quello che era il nostro alleato – stanco di vuote promesse d’aiuto – ha deciso di affidarsi alla Turchia, disposta ad inviare sul terreno migliaia di uomini.

Mentre la tensione è di nuovo alle stelle nel paese – dopo il raid sulla scuola militare di Tripoli e l’avanzata delle forze di Haftar su Sirte – la missione europea voluta dall’Italia, già tardiva, è stata archiviata. Non hanno certo aiutato i contrasti latenti fra Roma e Parigi sulla politica nord-africana. E la verità è che la guerra civile in corso non consente esercizi diplomatici da parte di un’Europa che dichiara la propria vocazione a diventare una potenza geopolitica ma non ha (perlomeno non ha ancora) né la coesione né i “denti” per esserlo davvero quando la partita si fa dura.

Si profila invece – come sta avvenendo in Siria dopo il parziale disimpegno americano – una spartizione fra sfere di influenza della Russia e della Turchia, quest’ultima diventata un caso senza precedenti di paese NATO con sogni neo-ottomani. Il nuovo incontro fra Putin ed Erdogan dà il segno dei tempi. Per l’Italia, che ha grandi interessi in gioco – a cominciare dalla presenza energetica di ENI fra Libia, Egitto e Levante – tira davvero una brutta aria: il prezzo potrebbe essere alto. Dovremmo reagire con una visione strategica aggiornata, invece di oscillare fra un appoggio formale ad Al Sarraj, tentativi altrettanto formali di mediazione con Haftar e speranze regolarmente deluse che siano alla fine gli americani a difendere i nostri interessi al posto nostro. Non sarà così.

Vedremo nei prossimi giorni se la diplomazia dell’ultima ora del Presidente del Consiglio e del Ministro degli Esteri – basata sull’idea di costruire una sorta di “gruppo di contatto” sulla Libia, di cui facciano parte gli attori esterni coinvolti (Russia,Turchia, Egitto, Algeria, Tunisia, Stati Uniti e i maggiori paesi europei) – produrrà qualche risultato. L’auto-percezione del ruolo italiano è di potere funzionare da “ponte” fra le parti in conflitto: idea che abbiamo da sempre, sempre e comunque, ma che non ha quasi mai funzionato.

Un ragionamento non troppo diverso andrebbe applicato alle conseguenze dell’eliminazione di Kassem Soleimani in Iraq. E’ ormai evidente che l’Europa, dopo il tentativo fallito di difendere l’accordo nucleare con l’Iran, ha su questo teatro e su quello siriano un’influenza poco rilevante (con l’eccezione parziale della Francia). E se questo è vero per l’Europa nel suo insieme, lo è tanto di più per l’Italia presa singolarmente. Ma ciò non elimina certo il problema di fronteggiare le implicazioni dello showdown con Teheran: non possiamo contare sul fatto che la nostra relativa marginalità ci risparmi anche i guai.

La lista di ciò che dobbiamo proteggere o difendere è lunga. La nostra ambasciata a Baghdad è accanto a quella americana e abbiamo ancora circa mille uomini sul terreno in Iraq, il cui dispiegamento è collegato alla permanenza (messa in discussione dal Parlamento iracheno) delle truppe americane. Abbiamo, come noto, una presenza di lunga data e rilevante nella missione UNIFIL in Libano, uno dei teatri potenzialmente più a rischio di rappresaglia da parte iraniana. Sono in gioco rapporti di amicizia storici con Israele, nemico giurato di Teheran. E abbiamo interessi economici e commerciali nel Golfo. Dalla sicurezza dello stretto di Hormuz dipende circa il 30% del nostro import petrolifero.

Gli appelli ad evitare un’escalation del conflitto serviranno a poco, perché un’escalation ci sarà comunque, anche se forse più limitata di quanto prevedano i pessimisti. L’Italia deve piuttosto aggiornare la propria lettura dei rischi e delle scelte possibili nel Medio Oriente di oggi, derivandone (Governo e Parlamento) decisioni politiche coerenti: cosa che in genere evitiamo di fare, sperando che altri – gli Stati Uniti, le Nazioni Unite, l’Europa – agiscano anche per noi. Salvo poi criticarli, ovviamente. La conclusione è semplice e preoccupante: se l’Italia non comincerà a considerare una priorità vera la politica estera, sarà la politica estera a occuparsi dell’Italia.

 

 


Un versione di questo articolo è uscita su La Stampa del 6 gennaio 2020.