Macron e la Francia, tra grandeur e ragion di stato
Poche settimane fa a Parigi si son perse le tracce del generale libico Khalifa Haftar. Impegnato in uno dei suoi (non rari) viaggi europei, il Signore della Cirenaica è stato dato per malato grave, poi per morto, di nuovo per convalescente e infine sulla via di casa, ma in realtà da quel momento nessuna notizia certa è più giunta sulla sua sorte.
L’importanza della vicenda è nel luogo più che nel soggetto. Cioè nella circostanza che un episodio dai contorni così rilevanti rimanga opaco, tra il detto e il non detto, e che tutto ciò accada a Parigi, capitale diplomatica d’Europa. E non a Bengasi, latitudine evidentemente molto più complessa, o in una qualsiasi delle ex città coloniali francesi del pianeta.
Nel volgere di pochi mesi l’immagine diplomatica di Emmanuel Macron ha cambiato radicalmente di segno. Se nel novembre scorso, accogliendo a Parigi il premier dimissionario libanese Saad Hariri, Macron sembrava un novello François Mitterand, oggi appare un Presidente totalmente prono al paradigma della ragion di stato e all’Atlantismo oltranzista. Un leader, insomma, senza scale intermedie di grigi, che in diplomazia valgono più della logica tranchant del bianco o nero.
Nella vicenda di Hariri, Macron ebbe il merito di mediare una crisi tra Libano e Arabia Saudita, e l’offerta di un esilio parigino aveva appunto il sapore della Francia disegnata da Mitterand. Quel luogo dove gli esuli politici di qualsiasi paese possono sempre trovare un porto sicuro dove esercitare il diritto al dissenso, alla rappresentanza (pure se in contumacia), o anche solo l’elementare diritto a rimanere in vita.
La vicenda Haftar mette in dubbio questa visone. E si somma ad altri scenari adiacenti al quadrante libico, come il Vicino Oriente, dove la Francia sta giocando una partita spregiudicata. Su tutta la narrazione libica pesano, non c’è dubbio, la scelta anglo-francese di deporre Muammar Gheddafi con la forza nel 2011 e l’attuale situazione d’impasse, in cui il generale Haftar (amico di Parigi, ma anche di Roma…) è una colonna portante dei delicati rapporti di forza in campo.
A sette anni dal crollo del regime del Colonnello sembra ormai chiaro come alle potenze occidentali coinvolte, Francia in testa, la situazione attuale in fondo non dispiaccia. Cioè, oltre alle classiche dichiarazioni di principio e il riconoscimento al governo di Fayez al-Sarraj a Tripoli, in realtà Egitto, Italia e Francia hanno costantemente dialogato e collaborato con Haftar a Bengasi, confermando nella prassi quello che negano nella forma. Parigi va addirittura oltre Roma, se ora con Emirati Arabi ed Egitto rappresenta palesemente il triumvirato che designerà il successore di Haftar, con una scelta che potrebbe addirittura cadere su un parente stretto del generale.
Macron, in altre parole, avalla uno Stato libico diviso tra forze uguali e contrarie, piuttosto che sostenere univocamente l’unico governo legittimamente riconosciuto dalla comunità internazionale: quello di al-Sarraj appunto.
Ma le contraddizioni, o gli interessi diretti, di Parigi investono ugualmente la Siria. Anche qui ci troviamo di fronte a due fattori in apparenza opposti. Da una parte la Francia combatte con ogni mezzo gli islamisti radicali, ma dall’altra è attivamente contro Bashar al-Assad e contro Vladimir Putin, che pure sono i principali nemici dei fondamentalisti concentrati in Siria.
Prima assolutamente segreto, e poi trapelato grazie ad inchieste giornalistiche, il piano francese di eliminazione diretta degli islamisti nel teatro siriano è oggi di dominio pubblico. Per mezzo della DGSE, ossia Direction générale de la sécurité extérieure, Parigi ha sinora neutralizzato con interventi mirati almeno 300 jihadisti con passaporto francese, e molti altri sono stati colpiti.
L’obiettivo è eliminare in radice il pericolo del rientro in patria francese dei Foreign Fighters, coloro che dalle città francesi a migliaia hanno ingrossato le fila dell’internazionale islamista andando a combattere in Siria – e anche compiendo azioni clamorose sul territorio nazionale. Ma qui Parigi sembra appunto operare la distinzione clamorosa per cui i jihadisti con passaporto francese sono nemici della Francia, mentre quelli con passaporto diverso sono prima di tutto oppositori di Assad, e quindi possono addirittura tornare utili.
Questo doppio standard è stato esplicitato da un precedente ministro degli Esteri, Laurent Fabius, un autorevolissimo rappresentante della V Repubblica, Primo Ministro con Mitterand e più volte ministro. Nel 2012, interrogato da Le Monde, l’ esponente del Partito Socialista elogiò al-Nusra per l’ottimo lavoro (le bon boulot) svolto sul campo – naturalmente, in chiave anti-Assad. Ora è di dominio pubblico come al-Nusra altro non fosse che la costola siriana di al-Qaeda. Un supporto così sfacciato e incondizionato all’opposizione siriana solleva qualche interrogativo sulla politica estera francese e sui suoi principi.
Tornando alle settimane scorse, altri due episodi svelano il crescente pragmatismo macroniano. L’incondizionata solidarietà al governo di Theresa May contro Mosca sul caso della spia russa Sergej Skripal colpita con l’agente nervino, e la piena rivendicazione del raid punitivo contro Assad per il presunto attacco chimico su Duma ai primi di aprile 2018.
Se per il caso Skripal stupisce la fretta nel condannare la Russia a indagine ancora aperta, sulla Siria Macron si è ritagliato un ruolo da protagonista anche nelle ore appena successive all’attacco, incassando tuttavia una clamorosa smentita da Trump, il quale ha negato la volontà degli USA di rimanere nel teatro siriano su esplicita preghiera francese. Ma qui non importa tanto chi dei due abbia mancato alla propria parola, il punto sostanziale è la volontà di Parigi ad occupare un ruolo di primo piano diplomatico e, all’occorrenza, militare.
Come negli Stati Uniti esiste un “deep state”, in Francia esiste un “état profond”. Si tratta di un mix composto di eredità coloniale e architettura costituzionale presidenzialista, ossia l’abitudine a misurare sul grande ambizioni d’oltremare che persistono nell’immaginario, a volte ben oltre la realtà fattuale del mondo odierno.
Si fa però fatica a non menzionare come, nel caso dell’attacco chimico di Assad, le prove di colpevolezza di Damasco non fossero ancora state ancora accertate in sede ONU. Il sospetto di un pretesto per intervenire (anche solo a scopo dimostrativo) è legittimo, come l’impressione che al momento Macron non sembri un Presidente in grado – per inesperienza o per mancanza di peso specifico – di governare l’état profond, ma anzi appaia deferente ad esso.
Vedremo se Macron saprà affrancarsi da un’interpretazione pedissequa della ragion di stato e soprattutto dal reticolo d’interessi che lega l’alta finanza francese ad una concezione coloniale, e in fondo superata, del potere e dei territori d’outre-mer. Se è vero cha la democrazia, in fondo, è rispetto della procedura – e se è vero che Macron è un politico di nuova generazione – è venuto il momento di dimostrarlo.