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I Repubblicani al Congresso e i “checks & balances” della politica americana

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 Il meccanismo dei “checks and balances” si è decisamente attivato, dopo due anni di dominio mediatico incontrastato del Presidente Trump che ha tracimato negli equilibri istituzionali. Non soltanto per mano della nuova maggioranza democratica alla Camera, ma anche – cosa più sorprendente – dei membri repubblicani al Congresso.

Per molti mesi le dichiarazioni presidenziali sono state minimizzate come bizzarrie comunicative di un leader con uno stile tutto suo, ma lo “shutdown” parziale di fine 2018 è stato un punto di svolta. Diversi Deputati e Senatori repubblicani, dopo il colpo subito dal GOP nel Midterm di novembre, hanno allora visto in faccia la propria fine politica, almeno in quei distretti e in quelle comunità locali che non sono sufficientemente trumpisti da accettare come oro colato qualsiasi iniziativa del Presidente. A maggior ragione perché la posta in gioco dello scontro istituzionale scoppiato a fine anno è quasi puramente simbolica: quasi tutti sanno che una barriera di confine con il Messico naturalmente già esiste (seppure incompleta e non impenetrabile) e che i flussi di migranti non stanno affatto aumentando in modo massiccio.

Di questi dati – fattuali e politici – sta tenendo conto il leader dei Repubblicani al Senato, Mitch McConnell, che aveva ufficialmente consigliato al Presidente di non dichiarare un’emergenza nazionale per affrontare proprio la questione della frontiera con il Messico. A seguito della scelta compiuta da Trump il 15 febbraio, è stata presentata una Risoluzione nei due rami del Congresso per bloccarne gli effetti – pur sapendo che sarebbe giunto un veto presidenziale per superare l’ostacolo, come è puntualmente avvenuto il 15 marzo. L’elemento di novità sta nel fatto che la Risoluzione è passata (59-41) con il sostegno di 12 Senatori repubblicani.

Il tweet con cui Trump invitava i Senatori repubblicani a schierarsi a favore della dichiarazione di emergenza nazionale al confine con il Messico. Il Senato voterà poi 59-41 contro.

 

Del resto, non va mai dimenticato che all’origine di questa amministrazione c’è una sorta di “takeover ostile” del Partito Repubblicano da parte di un outsider che ha stravolto (oltre a molte norme di comportamento istituzionale) alcune ricette classiche del GOP. I rapporti di Donald Trump con la sua naturale maggioranza politica in Congresso sono perfino più difficili in politica estera, un settore in cui lo stile negoziale della Casa Bianca lascia basiti molti parlamentari di grande esperienza: attacco alle storiche alleanze, iniziative con scarsa preparazione tecnica, fortissima personalizzazione delle relazioni intergovernative, imprevedibilità come approccio deliberato.

Una questione sulla quale il Congresso ha cercato di prendere le redini per frenare il cavallo in corsa della Casa Bianca è quella saudita: dall’omicidio Khashoggi (ricordando che si trattava di un cittadino saudita ma anche di un giornalista del Washington Post) ai presunti accordi per fornire ai sauditi tecnologie nucleari. Un passaggio interessante vede impegnati in una proposta di Risoluzione alcuni Senatori democratici, ai quali si è unito il Senatore repubblicano Rand Paul, per impedire il trasferimento di quelle tecnologie se ciò dovesse portare alla costruzione delle armi nucleari che si teme i sauditi vogliano sviluppare. A ciò si aggiunge la condanna del ruolo saudita nella guerra in Yemen, con la richiesta del Senato (presentata con l’appoggio di 7 Repubblicani) di bloccare gli aiuti americani a Riad; il voto è atteso a breve.

Insomma, siamo di fronte a una presa di posizione, per quanto ancora minoritaria, che manifesta una chiara sfiducia nella “gestione Trump” di un delicato dossier di sicurezza regionale. I suoi riflessi vanno anche oltre la geopolitica, visto che il regno saudita non è certo un modello politico da emulare e che il Senatore Marco Rubio ha recentemente definito il Principe Mohammed bin Salman un “gangster”.

Il capogruppo repubblicano al Senato Mitch McConnell

 

Del resto, si stanno moltiplicando le occasioni in cui gli stessi Repubblicani cercano (nonostante il comprensibile timore di rappresaglie presidenziali) di limitare i danni in politica estera: è il caso anche della penisola coreana, dove la Casa Bianca ha puntato tutto sui rapporti personali tra Trump e Kim. Subito dopo il fallito vertice tenutosi ad Hanoi a fine febbraio, sono cresciute le voci preoccupate per la mancanza di una linea strategica chiara verso il regime nordcoreano, con la richiesta di maggiore fermezza ad esempio da parte del “Minority Leader” alla Camera, Kevin McCarthy. A fare scalpore c’è stata la morte dello studente americano, nel giugno 2017, che era stato detenuto per circa un anno e mezzo in Corea del Nord, sul quale il Presidente ha sostanzialmente accettato la posizione di Kim, che sostiene di non essere stato a conoscenza della vicenda. Di nuovo, anche sul dossier nordcoreano il problema di fondo sembra essere la sfiducia di buona parte del Congresso nei confronti di una gestione della politica estera totalmente incentrata sulla Casa Bianca.

Alla luce di questi segnali ricorrenti, vedremo un maggiore attivismo del Congresso nel prossimo futuro, e non soltanto sul versante democratico nella serie di indagini che riguardano vari membri ed ex-collaboratori dell’Amministrazione Trump. E’ significativo proprio il precedente stabilito sul rischio (evitato) di un secondo shutdown parziale del governo, a febbraio, perché in quel caso la leadership repubblicana ha sostanzialmente bloccato la strada a Trump. Ne è emerso quantomeno un accordo parlamentare bipartisan per il finanziamento delle misure al confine col Messico che il Presidente ha apertamente criticato, pur accettandolo come soluzione temporanea. Lo scontro è comunque proseguito, fino al veto presidenziale, ma il segnale di rottura dei ranghi tra i conservatori è stato forte e chiaro.

Intanto, si può dire che una classica forma di “checks and balances” è ormai pienamente in azione; una tendenza che influenzerà la politica estera americana – e il clima politico attorno all’eventuale ricandidatura di Trump – fino al novembre 2020.