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Lavorare per un futuro democratico: una conversazione con Amr Darrag

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Non ha studiato legge, o filosofia. Ha studiato ingegneria. Eppure Amr Darrag, 60 anni, esponente di punta dei Fratelli Musulmani, è tra i più autorevoli analisti non solo dell’Egitto, ma dell’intero Medio Oriente. Da quando Abd al-Fattah al-Sisi è al potere, vive a Istanbul. E l’ultima volta che sono stata qui, nel suo ufficio, aveva il passaporto in scadenza, da rinnovare all’ambasciata d’Egitto. Ma mi disse: “Se ci entrassi, sparirei”. Torno mentre non si parla che di un’altra ambasciata, quella dell’Arabia Saudita. E di Jamal Khashoggi.

Amr Darrag ha fama di intuire tutto in anticipo. Ed è il più ascoltato dai giornalisti occidentali. “Ma solo perché parlo inglese”, ti dice con il suo tipico understatement. Anche se adesso aggiunge: “O forse perché sono l’unico ancora libero”.

In realtà, è molto più che un leader dei Fratelli Musulmani. E se è nel mirino, è esattamente per questo. A capo dell’Assemblea costituente nei mesi di Mohamed Morsi (appena più di un anno tra 2012 e 2013), e poi, brevemente, ministro, fa ora parte di quella comunità di dissidenti in esilio che si è formata in questi ultimi anni a Istanbul, composta di politici esperti, già impiegati in ruoli di responsabilità, di cui faceva parte anche Khashoggi, che si è aggregata con la crisi della Primavera Araba. Molti dei dissidenti giovani sono finiti in carcere, o tornati a vita privata; quelli con passaporto europeo o americano hanno scelto l’esilio in Occidente. Loro invece arrivano dalla Siria, dall’Iraq. Dai paesi del Golfo. Ma anche dall’Europa, di ritorno da un esilio precedente. E stanno lavorando a un Medio Oriente di libertà e democrazia. Tutti insieme. Laici e islamisti. Minando così la narrativa dominante: e cioè che solo gli al-Sisi, solo gli Assad possano garantire la stabilità. Che tutto il resto sia al-Qaeda.

Jamal Khashoggi, suo amico fraterno, è scomparso poco prima della presentazione di Democracy for the Arab World Now, il think tank che avevano appena fondato. Con il suo acronimo che significa alba: DAWN. “Non è scomparso solo perché criticava”, dice. “Ma soprattutto, perché proponeva”.

 

Più che dalla stampa, le notizie dall’Egitto ormai ci arrivano attraverso Amnesty International. E sono notizie di retate, torture. Condanne a morte. E di sparizioni forzate, soprattutto. Una ogni tre giorni.

E il risultato è che non sono più notizie. Perché quando hai solo uno, due casi, hai attenzione, hai indignazione, mobilitazione: ed è ancora possibile intervenire. Avere giustizia. Ma se i detenuti, gli imputati, i morti, iniziano a essere migliaia, diventa tutto normale. Diventa tutto, appunto, un bollettino periodico di Amnesty International. E’ una lezione amara da imparare: ma per i regimi autoritari, cento omicidi sono più semplici di un omicidio solo.

 

Secondo al-Sisi, sono tutti Fratelli Musulmani.

E questo ti autorizza a giustiziarli?

 

Nel senso che sono dei sovversivi. Che tentano di rovesciare il governo.

Il primo dei sovversivi, onestamente, è al-Sisi. Che è arrivato al potere rovesciando un presidente regolarmente eletto. Ma poi… Che significa? Pensa a uno come Bassem Ouda. Che è dei Fratelli Musulmani, sì, ma per gli egiziani non è che il Ministro dei Poveri. Amatissimo. Perché ha tagliato il prezzo del pane, il prezzo del gas. Si è battuto contro l’inefficienza, gli sprechi, la corruzione. E ora è all’ergastolo per avere bloccato una strada durante una manifestazione. O per esempio, uno come Masoum Marzouk. Che dire? Viene dalla sinistra laica. E tra l’altro, ha sostenuto il colpo di stato di al-Sisi. Ma poi ha chiesto che venisse confermato presidente tramite un referendum: ed è finito in carcere. Come il generale Sami Anan, Capo di stato maggiore con Mubarak. Colpevole di volersi candidare presidente. E arrestato perché non aveva il permesso dell’esercito. In realtà, quello che non aveva è il permesso di al-Sisi.

 

Che a marzo è stato rieletto con il 97% dei voti.

Contro un solo sfidante, sì. Il quale ha dichiarato che avrebbe votato per al-Sisi.

 

Eppure, in apparenza è tutto normale. Con un parlamento. Dei partiti.

Appunto. In apparenza. Intanto, alle ultime elezioni ha votato solo il 32% degli egiziani. Ma soprattutto, i deputati indipendenti sono passati dal 5% al 57%: un dato che indica tutta la fragilità dei partiti. Esistono, sì. Ma un po’ come con Mubarak, hai una coalizione di governo, e una finta opposizione. L’opposizione vera è tutta fuorilegge. La differenza, rispetto agli anni di Mubarak, è che Mubarak lasciava alla società civile un certo margine di libertà. Cosa che, ovviamente, gli diminuiva le tensioni. Le pressioni per il cambiamento. E invece al-Sisi, con queste sue nuove leggi che controllano le associazioni, controllano la stampa, e con l’attacco a singoli attivisti e singoli giornalisti, ha un dominio assoluto. Quel 57% di indipendenti non segnala una società civile forte: ma cittadini ridotti a sudditi. Una società di notabili. Ognuno con il proprio piccolo feudo. E tutti al servizio di al-Sisi.

 

Che controlla anche le forze di sicurezza. In fondo, è un generale. Ed era a capo dell’intelligence militare.

Sì. Ma oltre a questo tipo di repressione, che è una repressione, diciamo così, tradizionale, basata sulle forze di sicurezza, e che è la più visibile, c’è anche un altro tipo di repressione: e che è una sorta di repressione economica. Non meno efficace. Perché l’esercito, come è noto, controlla circa i due terzi dell’economia. E quindi al-Sisi, attraverso l’esercito, ha un dominio assoluto non solo sulla libertà, ma sulla vita degli egiziani: manovra i fili della produzione, e distribuzione, di beni come lo zucchero, la farina. Il latte. L’85% degli egiziani è sotto la soglia di povertà. E se hai fame, la tua priorità non è la democrazia, ma la sopravvivenza.

Al-Sisi tra gli ufficiali dell’esercito egiziano

 

Più che la povertà, però, oggi al Cairo colpisce la disuguaglianza. Mendicanti ovunque, sì. Ma anche un nuovo shopping mall in cui è possibile persino sciare.

Ma perché oggi è così che sottometti un paese: cancellando la sua middle class. Che è da sempre il motore del cambiamento. Perché ha i mezzi non solo materiali, ma intellettuali, per chiederlo e ottenerlo. E in Egitto è scomparsa. Proprio perché è stata la protagonista della Primavera Araba. Ti assicuri una minoranza di fedelissimi attraverso benefici e privilegi. Quelli che sciano al Mall of Egypt griffati Versace. E costringi tutti gli altri all’esilio. E arresti chi non si rassegna ad andare via. E torturi e elimini chi non si rassegna a tacere.

 

Povertà e paura. Ma se nessuno ha più niente da perdere, perché non si ha una nuova rivoluzione? Perché al-Sisi è ancora al potere?

Questo, in realtà, sono io che dovrei domandarlo a te. Perché al-Sisi, più che il nostro, è il vostro presidente. Non avendo legittimazione popolare, si è costruito una legittimazione internazionale. Vende l’unica vera risorsa dell’Egitto, che non è il gas: è la politica estera. La cooperazione con Israele, per esempio, non ha precedenti. Guarda Gaza. Guarda il confine di Rafah: sigillato ancora di più di quello di Eretz. Ma soprattutto, l’asso di al-Sisi è la Libia. Il legame con il generale Haftar, l’uomo da cui dipende la tenuta del piano di pace dell’ONU. E quindi, delle frontiere. Se al-Sisi sta ancora al potere, è perché promette di fermare i jihadisti. E i migranti.

 

E ha le capacità per fermarli?

Chi causa povertà e paura, ha solo la capacità di crearli.

 

La Libia… Com’è il ruolo dell’Italia, visto da un arabo?

Il ruolo sbagliato. Il ruolo di chi tratta la Libia come una sua proprietà. Parlate di Libia, e parlate di milizie e tribù. Come se non esistessero ingegneri, medici, avvocati. Imprenditori. Cittadini normali. Come se non esistesse un paese: solo un campo di battaglia. Sostenete quelli che hanno le armi: e cioè proprio quelli di cui tutti noi vorremmo liberarci. Poi ogni tanto venite, e chiedete: come possiamo aiutarvi? Stando fermi.

 

Quanto durerà al-Sisi? Quanto è saldo il suo regime?

Il suo dominio è assoluto. Ma anche temporaneo. Molto temporaneo. Intanto, perché la storia del Medio Oriente è tutta una storia di presidenti che l’Occidente ha usato e poi liquidato non appena non gli erano più utili. Non c’è niente di meno saldo di un regime che si fonda su forze esterne. E interessi altrui. Ma onestamente, non sarei neppure tanto certo del sostegno interno. Del sostegno dell’esercito. Che con al-Sisi si sta demolendo la reputazione. Così come non sarei tanto certo che gli egiziani, a un certo punto, non diranno basta. Tornando in piazza anche senza alcuna guida. Alcun coordinamento. Alcun progetto. E allora avremmo solo sangue e morti.

 

Ed è per questo che ha fondato l’Egyptian Institute for Strategic Studies.

Per studiare la transizione alla democrazia. Sì. Per studiare una nuova architettura istituzionale. Ma anche una nuova economia. Un nuovo sistema giudiziario. L’Egitto è un paese da ricostruire da zero. Si è parlato tanto degli errori di piazza Tahrir. Dei contrasti tra i laici e gli islamisti. Tra i ventenni e i sessantenni. Ma il primo errore è che non eravamo pronti.

 

Ma allora ha ragione al-Sisi. Siete dei sovversivi.

Siamo al lavoro per garantire esattamente quella stabilità che gli al-Sisi minano.