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Trexit: la sfida anglosassone per l’Europa

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Si è insediato alla Casa Bianca un presidente americano che apparentemente non crede più nelle virtù della Pax Americana – l’ordine geopolitico di libero scambio e sicurezza condivisa creato dall’Occidente alla fine della seconda guerra mondiale.

A essere onesti, quell’ordine era ormai più che traballante; e da qualche decennio. Ma Donald Trump ha deciso di dirlo apertamente; nel momento in cui l’ha fatto – in forme rapide e brutali – ha anche chiarito che gli Stati Uniti giocheranno la nuova partita globale con regole diverse dal passato. E nel proprio esclusivo interesse, più che per conto di altri, europei inclusi. Per l’Europa, abituata a dare per scontato il legame con Washington, è una sveglia di proporzioni notevoli. Anche perché la combinazione fra Trump e la crisi europea cambia parecchio le cose. Lo si vede con Brexit.

Nell’epoca di Barack Obama, Londra è stata priva di una sponda americana; Obama, senza peraltro riuscire, ha cercato di favorire l’Unione, non la disgregazione europea. Donald Trump sta invece dando alla premier britannica, Theresa May, non una mano ma due: un appoggio politico esplicito e un contesto per evitare l’isolamento britannico. La combinazione fra amministrazione Trump e Brexit – Trexit, per usare il gergo della politica internazionale – potrebbe infatti creare le condizioni per un’anglosfera del secondo millennio. Senza rispondervi in modo strategico, l’Unione Europea rischia di farne le spese. 

Il legame tra le due anime del mondo anglosassone è destinato a rafforzarsi. Se Trump guarderà prima a Londra e poi a Berlino, Theresa May – che ieri ha cercato di tranquillizzare il mondo finanziario di Davos sugli effetti di Brexit – tenterà di utilizzare lo spazio atlantico per rafforzare la sua posizione negoziale con l’Europa. Deregolamentazione, controllo dell’immigrazione e piena sovranità nazionale sono i punti di una visione politica condivisa – per vera o illusoria che sia.

E contano i dati tangibili. L’anglosfera della finanza, del commercio, della difesa e dell’intelligence esiste già. Rappresenta il 26% del PIL globale e quasi il 40% della spesa militare mondiale. Troppo, per potersene disinteressare. E per potere pensare che l’anglosfera non tenderà ad attrarre altri: storicamente, l’Olanda ne ha sempre subito il fascino. Guardando agli equilibri extra-europei, un paese come l’Australia tenderà a considerarla un punto di riferimento, almeno in alcuni settori.

Negli anni Ottanta del secolo scorso, Margareth Thatcher e Ronald Reagan gettarono le basi per la rivoluzione mondiale basata sul libero mercato.  Oggi, Trump e May sembrano rivendicare una nuova cesura sistemica, di segno diverso. Tuttavia, la storia deve ancora dimostrare se Trump riuscirà a diventare un secondo Reagan; e fino a che punto la nuova coppia atlantica – per definizione asimmetrica – sarà davvero coesa. Trump guarda a un ordine post-globale (oltre che post-europeo): stando alle posizioni di partenza, tenderà ad adottare un approccio liberista dentro i confini americani ma almeno parzialmente protezionista al di fuori. La Gran Bretagna deve invece scommettere sulla capacità di ritrovare la propria vocazione come potenza commerciale. Il Regno Unito, come media economia aperta, spingerà per l’abbattimento delle barriere commerciali a livello mondiale, così da creare quanti più sbocchi di mercato per beni e servizi britannici. Al tempo stesso, Londra tenderà a recuperare attrattività – rispetto all’Europa continentale – attraverso la concorrenza fiscale.

Esiste insomma una potenziale tensione nella nuova anglosfera; ne sarà un indice interessante la posizione rispettiva sul problema Cina. Potrà aggiungersi, in materia di sicurezza, un atteggiamento diverso sulla Russia di Putin. La tentazione di Trump sarà la ricerca di compromesso diretto: senza l’Europa e probabilmente senza Londra.

Fra convergenze e possibili vulnerabilità, l’anglosfera metterà in ogni caso alla prova l’UE. Non solo sul piano economico ma strategico: per l’Europa continentale, una collocazione atlantica è ormai tutto meno che scontata. Questo significa, guardando alle scelte contingenti, che il negoziato con Londra non può essere ridotto alla gestione tecnica dell’articolo 50 sull’uscita dall’UE. O all’idea che l’Europa debba comunque adottare l’approccio più duro possibile verso Londra, così da scoraggiare passi simili di altri paesi. Avendo il coraggio di guardare in faccia la realtà, il problema è anzitutto europeo: la perdita rapida della propria capacità di attrazione, sia all’interno che all’esterno. L’Unione europea, che è stata a lungo considerata una soluzione, è ormai parte maggiore del problema. Le debolezze strutturali della moneta unica sono ormai diventate debolezze politiche nazionali. Se l’UE continuerà a negare l’evidenza, e se la Germania non sarà in grado di esercitare una vera leadership continentale, Brexit sarà solo l’inizio della disgregazione europea.

Nata nel mondo atlantico del passato, l’Europa reagisce con troppa lentezza a cambiamenti drammatici e rapidi: fra nuove pulsioni dell’America di Trump, nuove ambizioni economiche della Cina di Xi Jinping e risorgenti ambizioni geopolitiche della Russia di Putin, l’UE senza leadership rischia di restare ai margini di un mondo “senza ordine” – ma che un nuovo ordine se lo darà, in modo più o meno traumatico. Dal punto di vista europeo, mantenere i legami con l’anglosfera è preferibile alle alternative euro-asiatiche.

Al tempo stesso, una vera disgregazione dell’Europa non conviene né agli Stati Uniti né alla Gran Bretagna. Theresa May lo ha ammesso in modo esplicito. Donald Trump appare molto più scettico sulle sorti europee; ma le sue posizioni, insegna la storia, tenderanno ad evolvere. Dipenderà largamente da quello che l’Europa sarà in grado di fare e non solo di dire. Più che accantonare la Pax Americana, è interesse condiviso ripensarla.

Una versione di questo articolo è uscita su La Stampa del 20 gennaio 2017.