international analysis and commentary

Giappone: l’imperatore e i piani del Primo Ministro

1,054

Dopo il rafforzamento della maggioranza di governo in Giappone con le elezioni di luglio per il rinnovo di metà del Senato, il premier Abe Shinzo intendeva aprire una nuova stagione: quella centrata sul cambiamento della Costituzione “dettata” dagli americani nel 1947. Invece, l’esternazione dell’imperatore Akihito, che l’8 agosto in un rarissimo discorso televisivo ha implicitamente espresso il suo desiderio di abdicare (a 82 anni e con il peso di 27 anni di regno sulle spalle), rischia di rimettere tutto in discussione. E non è da escludere che perfino il quadro regionale, caratterizzato dalle tensioni alimentate da spinte nazionalistiche e da rivendicazioni territoriali contrapposte, ne sarà influenzato. Infatti  il progetto di Abe mirante a modificare l’articolo 9 della Costituzione, quello che impone al Paese un pacifismo integrale, potrebbe esserne addirittura bloccato.

È opinione diffusa che, qualora si mettesse mano a una modifica della Legge sulla Casa imperiale, che regola atti e doveri dell’imperatore, si aprirebbe uno scrigno di Pandora per richiudere il quale occorrerebbero anni. In sostanza non si farebbe in tempo a concludere l’iter legislativo prima di due scadenze che sono per Abe un punto di arrivo: il termine del suo mandato di leader del Partito liberal democratico nel settembre 2018 (a meno di una revisione delle regole interne al partito per consentire al suo presidente un terzo mandato) e la fine della legislatura per quanto riguarda la Camera bassa nel dicembre dello stesso anno.

Lo comproverebbero le lunghe, e finora inutili, discussioni intorno ai due passati tentativi di rivedere le norme riguardanti l’imperatore. Si parlava nel primo caso di consentire a una donna di salire al trono (ipotesi cancellata dalla nascita di un legittimo erede maschio, Isahito, figlio di Akishino, secondogenito di Akihito), e nel secondo caso di migliorare lo status dei membri femminili della famiglia reale.

In questi giorni sta prendendo corpo l’ipotesi di affrontare il tema dell’abdicazione con una legge speciale, che varrebbe solo per Akihito e lascerebbe inalterato lo schema istituzionale che non prevede – e dunque non consente – “rinunce” da parte dell’imperatore al suo ruolo. Ma è una strada difficile da percorrere, anche trascurando la contraddizione rappresentata dal divieto fatto all’imperatore, pur privato di prerogative “divine” dalla Costituzione vigente, di appellarsi come individuo a quei “diritti inalienabili dell’uomo” che sono garantiti a tutti i giapponesi. L’articolo 4 della Costituzione rimanda infatti esplicitamente alla Legge sulla Casa imperiale per tutto ciò che attiene ai comportamenti dell’imperatore. Dunque conferisce ad essi una valenza costituzionale, creando però una potenziale zona grigia.

La logica dei tempi lunghi ha suggerito ad alcuni analisti che la pur cauta e costituzionalmente ineccepibile sortita dell’imperatore costituisca una mossa non solo di alto contenuto politico ma anche mirata a fare deragliare i piani di Abe. Akihito, e anche il figlio Naruhito che gli succederebbe in caso di abdicazione, non gradirebbero infatti l’eccesso di nazionalismo sotteso all’attuale linea politica governativa. Lo si evince non tanto dall’insistenza di Akihito nei suoi discorsi su termini come il “profondo rimorso” per le sofferenze inflitte dal militarismo giapponese ai Paesi vicini, quanto dalla omissione di certi distinguo che danno invece alle dichiarazioni dell’attuale premier un’impronta revisionista.

A differenza del padre, Akihito ha interpretato il ruolo di “simbolo della nazione” in chiave pedagogica. Ne deriva l’obbligo, la necessità di una “attività” andata ben al di là dei compiti formali previsti dalla legge (essenzialmente religiosi e diplomatico-cerimoniali). Proprio per questo, nel suo discorso dell’8 agosto ha espresso il concetto, grandemente innovativo, che un imperatore stanco e malato, pertanto impossibilitato a essere “attivo”, non è più un imperatore. Di conseguenza l’istituto della reggenza, previsto dalla legge, è da scartare. E occorre porre mano a un’ampia riforma, che sia adeguatamente ponderata.

In realtà è tutto da dimostrare sia che quello di Akihito sia stato un colpo basso inferto alla politica governativa sia che Abe non sia in grado di assorbirlo senza gravi danni. Per attuare la sua politica estera il premier ha dimostrato di non avere bisogno di una modifica radicale della Costituzione. Le leggi sulla sicurezza entrate in vigore in marzo sono state varate solo sulla base di una “interpretazione autentica” della Costituzione da parte di una commissione di giuristi di più o meno stretta osservanza governativa. Il cosiddetto diritto all’autodifesa collettiva che ne è derivato apre spazi di manovra sufficienti per le ambizioni di “proiezione di potenza” giapponesi.

Lo strumento sono le operazioni di peacekeeping sotto bandiera ONU. Sviluppi significativi in merito sono arrivati proprio in agosto con le manovre congiunte nelle acque di Gibuti, l’invio di un contingente in Sud Sudan, l’inizio del training delle truppe per due nuove mansioni quali il recupero in zone di guerra di caschi blu in difficoltà e la difesa delle loro caserme. L’autodifesa collettiva inoltre giustifica l’accresciuta attenzione verso le mosse cinesi nel Mar Cinese Meridionale tanto che, mentre si rafforza la cooperazione militare con le Filippine, si profila un appoggio alle operazioni americane “per la libertà di navigazione” in acque rivendicate dalla Cina. Inoltre, per il quinto anno consecutivo vengono aumentate le spese militari (del 2,3% per il 2017 con un bilancio record per la difesa di 51 miliardi di dollari): in arrivo nuovi missili, sistemi antimissile, caccia F-35, guardacoste, prototipi di droni.

In questo contesto l’irrompere sulla scena politica del problema-abdicazione potrebbe non risultare troppo sgradito al premier. Solo così, secondo alcune ricostruzioni di stampa, si spiegherebbe perché la NHK, rete televisiva pubblica molto attenta a non scontentare il governo, abbia divulgato a metà luglio, cioè un mese prima del discorso di Akihito, indiscrezioni provenienti da “fonti anonime” della Agenzia della Casa imperiale, relative proprio alla volontà dell’imperatore di passare la mano al figlio.

Abe aveva già fatto chiaramente capire di non ritenere utile aprire la fase della revisione della Costituzione partendo dall’articolo 9, troppo delicato e controverso. Sembrava preferire una modifica e un ampliamento dei poteri attribuiti all’esecutivo nei casi di emergenza – muovendo dal caos verificatosi nei giorni successivi al triplice disastro dell’11 marzo 2011 – terremoto, tsunami, e incidente nucleare. Inoltre non poteva ignorare le richieste e le ambizioni di visibilità degli alleati, necessari per garantirgli la maggioranza di due terzi in entrambe le Camere, tiepidi se non peggio verso lo smantellamento del pacifismo vecchia maniera.

Calcoli e compromessi rischiavano però di danneggiare l’immagine di Abe come leader decisionista, tutto sommato capace di guadagnargli le simpatie dei “moderati”, e di fargli perdere il fondamentale appoggio della estrema destra, incontentabile sul fronte del ritorno al passato e del revisionismo storico. L’ipotetica abdicazione dell’imperatore taglia la testa al toro, spuntando le armi ai critici di ogni tendenza; per di più aiuta ad impedire che la nuova assertività in politica estera, una volta che non sia più unita alla rilettura dell’articolo 9, susciti reazione scomposte in Asia e forse qualche preoccupazione anche a Washington. Insomma sembra consentire al realismo, oltre che alla prudenza, di prevalere sull’ideologia e sul populismo.

Concentrarsi sul ruolo dell’imperatore, d’altra parte, non è cosa che dispiaccia alla destra più tradizionalista. Questa aspira a un “ritocco” istituzionale, seppure non necessariamente connesso a un emendamento dell’articolo 1 della Costituzione, quello che sancisce che l’imperatore è il “simbolo” della nazione e dell’unità del popolo. Punto di partenza è l’obiettivo, caro a Abe, di fare del Giappone un Paese “normale”. Così come si pretende di avere il diritto di disporre, come tutti gli altri Stati sovrani del mondo, di Forze armate in grado di difendere il Paese nel modo ritenuto più opportuno (a differenza delle attuali Forze di autodifesa, soggette in teoria a molteplici limitazioni), allo stesso modo si pensa di tornare a fare dell’imperatore un capo dello Stato (e non solo un simbolo) equiparabile a re e presidenti di ogni altro Paese.

E puntando a un siffatto obiettivo, ripensare in toto a diritti e doveri dell’imperatore potrebbe rappresentare un utile appiglio sebbene le ricadute sul piano politico siano difficilmente calcolabili, e certo non meno rilevanti di quelle derivanti da un forcing sull’articolo 9.