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Il disastro del Venezuela e la speranza dell’Ecuador

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Che in Venezuela le cose vadano male da tempo è ben noto, e per rendersene conto basta guardare i milioni di emigranti che negli ultimi anni hanno lasciato il paese per cercare una vita degna soprattutto in Florida, dove ormai contendono ai cubani lo scettro della maggiore comunità latina.

Il quadro è drammatico: l’inflazione – arrivata al 700% secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, e nel 2017 prevista al 2200% – che corrode gran parte del salario dei lavoratori,) la povertà in cui è costretto a barcamenarsi il 73% della popolazione, il crollo della produzione industriale (-85,7% quella automobilistica), l’assenza di farmaci salvavita che negli ospedali ha fatto decuplicare la mortalità infantile e per malattie altrove curabili, il razionamento dell’acqua, il fatto che Caracas sia oggi la città con il tasso di omicidi più alto al mondo (secondo i dati dell’ONU). A tutto ciò si è aggiunto l’ultimo provvedimento annunciato circa un mese fa dal presidente chavista Nicolás Maduro: il razionamento energetico. È stata questa la goccia che ha fatto letteralmente traboccare il vaso, anche se gran parte dei venezuelani (70%) già nelle elezioni parlamentari dello scorso dicembre avevano votato contro il suo PSUV, il partito socialista unito fondato da Hugo Chávez.

Sostenere che i “black-out programmati” in tutto il paese “sono necessari per la siccità causata da el Niño” è una panzana troppo evidente perché gli stessi chavisti la accettino; visto il gradimento di Maduro, ai minimi storici e ormai costantemente sotto il 25% in tutti i sondaggi indipendenti, anche così si spiega come in appena due giorni, poche settimane fa, l’opposizione abbia raccolto 1,8 milioni di firme per indire un referendum e mandare così anzitempo a casa l’ormai odiato presidente.

Chi sperava che il voto popolare avrebbe sancito una soluzione pacifica della crisi – economica ed istituzionale – è stato però deluso. Il governo di Caracas ha già preso due decisioni importanti: la prima è che si terrà il referendum solo il prossimo anno, quando Maduro sarà sostituito non da un nuovo presidente eletto ma da un suo vice, che potrà essere la moglie, un figlio o Diosdato Cabello, l’altro volto oggi più noto del chavismo. Le regole costituzionali stabiliscono infatti che, una volta iniziato il quarto anno di mandato, il leader può scegliere il suo successore senza consultare nessuno né passare per il parlamento. Questo del resto è controllato dall’opposizione, e proprio per tale ragione i suoi poteri effettivi sono ormai ridotti al minimo. Per allungare i tempi del revocatorio – così è chiamato il referendum previsto dalla Costituzione che “revoca” il mandato presidenziale – Maduro può contare su due organi: il Consiglio Nazionale Elettorale (CNE), per quattro quinti sotto il suo controllo, e la Corte Suprema, massimo organo del sistema giudiziario, controllato al 100% dal regime.

La seconda decisione è in realtà per il momento solo una minaccia: quella della creazione di una lista di proscrizione che includa tutti i firmatari per il referendum – per cui i dipendenti statali schedati perderebbero il lavoro seduta stante. Già nel 2004, in occasione del revocatorio contro Hugo Chávez, una lista simile fu usata per ‘purgare’ l’azienda statale del petrolio Pdvsa e i ministeri da tutti quei dipendenti che avevano osato mettere in discussione con una firma la supremazia della “rivoluzione bolivariana”.

Come se non bastasse, lo scorso venerdì 13 maggio Maduro ha dichiarato uno stato d’emergenza di 60 giorni che copre tutti gli ambiti della vita pubblica, cosa che gli consente ora di ordinare “esercitazioni militari” all’esercito e di militarizzare la distribuzione e la vendita del cibo. Inoltre, con la scusa dell’impeachment sofferto dalla sua alleata brasiliana Dilma Rousseff, “per evitare che Caracas soffra un colpo di stato yankee come quello patito dalla compagna Dilma”, il delfino di Chávez ha annunciato di volere “radicalizzare la rivoluzione, facendo arrestare tutti gli imprenditori che hanno chiuso le loro fabbriche per affamare il popolo”. Ma le poche fabbriche rimaste nella disastrata economia venezuelana hanno già dovuto chiudere i battenti negli ultimi mesi, perché lo stesso governo non consente loro di comprare valute estere per importare le materie prime necessarie a produrre.

La situazione è tale che il rischio di una rivolta e di un conseguente bagno di sangue è più che concreto; una situazione mai verificatasi finora nei 17 anni di regime chavista in Venezuela. A dimostrazione della gravità del momento vale la pena segnalare qui che nei giorni scorsi persino Papa Francesco ha scritto a Maduro per esprimere “tutta la sua preoccupazione” per la “grave crisi economica”.

Sinora il papa aveva mantenuto un certo riserbo diplomatico su Maduro, forse per non pregiudicare le trattative di pace tra i guerriglieri delle Farc e il governo colombiano, intermediata proprio dal Venezuela. Lo storico accordo non è però stato firmato lo scorso 24 marzo (come auspicava il Vaticano) per una serie di motivi, il più rilevante dei quali il mancato disarmo della guerriglia. Ciò dimostra la debolezza dell’attuale presidente venezuelano anche agli occhi delle Farc che, invece, Chávez controllava.

Intanto, si sta attivando anche il business internazionale con interessi diretti nel Paese, come segnala tra l’altro la dichiarazione del direttore finanziario di Eni, Massimo Mondazzi, che ha definito “critica” la situazione. Visti i gravissimi problemi di liquidità del regime, il timore è che presto le cose possano cambiare, da cui il comunicato ‘preventivo’ dell’azienda italiana: ENI estrae infatti 60mila barili di greggio al giorno dal bacino dell’Orinoco, e teme presto o tardi di non essere più pagata.

Bisogna comunque specificare che non tutti i paesi retti dalla cosiddetta “sinistra bolivariana” – ovvero che s’ispira all’eroe Simón Bolívar che per primo tentò l’unione del Sudamerica ispanico, da lui ribattezzato ‘Patria Grande’ – sono un disastro come il Venezuela di Maduro. Ce n’è uno, anzi, che rappresenta un modello regionale: è l’Ecuador, governato oramai da quasi un decennio da Rafael Correa.

Il governo dell’Ecuador, a differenza di Maduro, sa ascoltare quasi sempre le richieste dei suoi concittadini, soprattutto di quelli colpiti recentemente da un terribile terremoto che, a metà dell’aprile scorso, ha causato oltre 700 morti ed almeno 30mila sfollati. Subito dopo il sisma, Correa non ha esitato ad aumentare l’Iva del 2%, a tassare i capitali bancari superiori al milione di dollari, oltre a proporre la vendita di asset dello stato per finanziare la ricostruzione – attirandosi così le critiche feroci dei ricchi e dei mass-media d’opposizione.

Correa, di tutti i presidenti della sinistra bolivariana è senz’altro il più colto, con tanto di doppio master in Economia – il primo ottenuto in Belgio, il secondo negli Stati Uniti. Ma anche il più pragmatico: appena eletto, pur allineandosi a parole su posizioni simili a quelle del chavismo, ha intrapreso grazie al capitale cinese e ai ricavi del petrolio una capillare riforma delle infrastrutture dell’Ecuador. Non a caso, oggi, la rete stradale del paese andino è di gran lunga la migliore di tutta l’America latina.

Nonostante alcune critiche nei confronti della dollarizzazione – ovvero l’abolizione della valuta locale sostituita con quella statunitense – introdotta nel 2000 dall’allora presidente Jamil Mahuad, Correa si è ben guardato dal ritornare alla moneta nazionale e ha mantenuto il dollaro USA. Ciò da un lato ha fatto del suo paese uno dei più stabili dal punto di vista monetario, dall’altro ha tenuto a freno due grandi problemi che ora affliggono ad esempio il Venezuela, ovvero l’inflazione e il cambio nero. Evitate le assurde politiche di cambio fisso intraprese da Chávez e, a partire dal 2011, da Cristina Kirchner in Argentina, Correa è riuscito anche grazie a politiche economiche sostenibili e alla stabilità monetaria ad attirare migliaia di pensionati statunitensi che oggi vivono, consumano e fanno aumentare il giro d’affari dell’Ecuador. Un vero e proprio case study è quello della bellissima cittadina di Cuenca, dove oggi vivono quasi 10mila pensionati stranieri, l’80% dei quali americani. Oggi Cuenca, oltre ad assomigliare alla Svizzera per le tante mucche, i pascoli verdi e il microclima fantastico, è considerata dalle guide di settore il miglior buen retiro al mondo per chi voglia vivere bene con un migliaio di euro al mese di pensione.

Anche perché non solo la violenza a Cuenca è molto bassa rispetto alla maggior parte delle altre città latinoamericane con più di mezzo milione di abitanti, ma notevoli sono gli sgravi fiscali, sia nel settore delle pensioni che in quello della sanità, garantiti a chi sceglie di trasferirsi in Ecuador dalla “rivoluzione cittadina”, come ha battezzato lo stesso presidente Correa il modello economico-sociale introdotto da lui introdotto nel 2007, una sorta di terza via al socialismo che s’ispira al “bolivarismo” venezuelano – anche se cum grano salis.

Un esperimento sinora riuscito se si considera che, tra 2007 e 2014, l’economia ecuadoriana è cresciuta ad una media annuale del 4,3%. Da aggiungere però che nel 2015 il Pil è stato stagnante e quest’anno si prevede un calo netto della produzione interna lorda (circa il 4%), dovuto al calo nei prezzi delle commodity e, soprattutto, al rallentamento della Cina, di gran lunga il partner industriale e commerciale numero dell’Ecuador “made in Correa”.

Probabile che il drammatico fallimento economico e sociale del Venezuela segni la fine di un modello “bolivariano” a cui molti paesi latinoamericani si erano ispirati, ovvero tutti quelli dell’Alba, l’Alleanza bolivariana per le Americhe e oltre la metà delle nazioni appartenenti all’Unasur, l’Unione delle nazioni sudamericane. Di certo la fine del kirchnerismo in Argentina e la crisi profonda del Partito dei Lavoratori (PT) di Lula e Rousseff in Brasile – dove contro la presidente Dilma è in corso un processo di impeachment e l’economia è allo sbando (-8% del Pil negli ultimi 2 anni) – hanno fatto abbandonare ai due principali paesi del continente ogni aspirazione/parvenza di “bolivarismo”, a differenza della Bolivia e dello stesso Ecuador.