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Potere e demos in Europa: il nodo irrisolto

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La vicenda greca è direttamente legata al funzionamento della democrazia in Europa. Non nel senso inteso dai vari populisti – compresi quelli tuttora al governo in Grecia – che accusano “Bruxelles” o la mitica Germania della Signora Merkel di aver schiacciato la sovranità di un piccolo paese-membro. Anzi, del paese-membro che ha perfino inventato la parola stessa come “potere del popolo“. C’è peraltro del vero quando si afferma che le sovranità non sono tutte uguali nella visione tedesca, ma tanti errori sono stati commessi da più parti proprio perché si è sottovalutata una questione democratica più ampia.

Ci sono, in effetti, cruciali lezioni da trarre in una diversa prospettiva: quella di un sistema democratico, liberale e di mercato per l’Unione Europea nel suo complesso. È, stranamente, un tema di cui si parla poco in termini costituzionali; lo si è fatto soprattutto negli anni Novanta, tra il Trattato di Maastricht e quello di Lisbona (che ha riformato Maastricht). Poi, tuttavia, quelle questioni strutturali sono state relegate in secondo piano.

Una delle analisi più lucide e lungimiranti del “problema europeo” rimane quella di Larry Siedentop in un suo libro del 2001 (Democracy in Europe), che non solo identificò una grave “questione democratica” ma previde anche una serie di sviluppi che oggi ci sembrano del tutto scontati. Quel saggio definiva anzitutto la costruzione europea come una variante di federalismo – concetto quasi ovvio che però, nella nostra ansia intellettuale di vedere l’Unione come un animale del tutto sui generis, spesso dimentichiamo. Siedentop chiariva poi come e perché i “perdenti” nell’ambito dell’Europa di oggi tendano a cercare rifugio nel nazionalismo o nel regionalismo localista, vedendo nell’Unione una sorta di oppressore straniero: il motivo di fondo è a suo parere che il progetto federale non è stato definito con chiarezza nei suoi limiti – oltre che nelle sue ambizioni.

Per sua natura, ogni processo di federalizzazione è sempre complesso e delicato, perché possiamo dire che deve portare da molteplici identità “ristrette” ad una superiore identità “allargata”, senza però comprimere il senso di appartenenza preesistente ai livelli più bassi. Per contenere il pericolo di reazioni nazionaliste al federalismo (inteso come processo e metodo di gestione del consenso e del dissenso), la chiave di volta è dunque un sistema federale che sappia accomodare la diversità, e anzi nutrirsene. Non si deve qui confondere la ricerca di “economie di scala” a fronte dei grandi fenomeni globali – certamente utile – con l’illusione dell’uniformità a tutti costi; anzi, un’area di mercato macro-regionale come quella europea dovrebbe sfruttare al meglio le complementarietà e la stessa competizione al suo interno. Non è certo facile trovare un punto di equilibrio, ma l’alternativa è una visione “zoppa”, cioè proprio la situazione che abbiamo di fatto oggi. Il fondamentale problema politico-economico che finora si è cercato soltanto di aggirare è che l’eurozona (ma anche la UE) non sta pienamente sfruttando gli aspetti complementari delle economie che ne fanno parte, né producendo una loro graduale convergenza. Intanto, non ha realizzato un grande mercato unico in settori decisivi come i servizi e l’energia, e anzi – in parte per effetto della crisi degli ultimi anni – ha visto frammentarsi i mercati, soprattutto in campo bancario.

Queste carenze macroscopiche sono il riflesso di una carenza costituzionale, come appunto sosteneva già quindici anni fa Siedentop. Ha recentemente richiamato la questione anche Sergio Fabbrini, autore di un altro libro di ampio respiro (Compound Democracies. Why the United States and Europe Are Becoming Similar), in chiave di comparazione tra Stati Uniti ed Europa; ma si tratta di eccezioni, che in ogni caso sono solitamente percepite come analisi politologiche senza una possibile applicazione immediata.

Non è infatti questo il modo in cui si discute quotidianamente di Europa, perfino negli ultimi mesi che potremmo definire di “psicanalisi politica” per l’intero progetto di integrazione del Continente.

Le ragioni sono numerose, a cominciare dall’assoluta preponderanza delle questioni economiche almeno dal 2008 in avanti (una preponderanza che ha però le sue radici nel metodo “funzionalista” dei Padri fondatori), per finire con una certa “ingessatura” dell’europeismo tradizionale (che esercita scarsa attrazione sulle generazioni cresciute dopo il 1989): discutere apertamente dei fondamenti (costituzionali) dell’integrazione sembra un tabù.

Purtroppo, questo modo di parlare di Europa – pieno di sottintesi e al riparo dei tabù – ha avuto l’effetto perverso di offrire molto spazio all’approccio populista, che semplifica problemi complessi senza preoccuparsi di doverli gestire. Lo si vede chiaramente di fronte, ad esempio, alla sfida dell’immigrazione, in cui tutto (o quasi) si riduce a uno scontro verbale tra una linea del “respingimento a oltranza” (praticamente irrealizzabile, oltre che moralmente poco difendibile) e una linea della “accoglienza automatica ma redistribuita” (finora non praticata). Entrambi i punti di vista sono poco più che banalizzazioni retoriche. La carenza di strumenti di discussione più sofisticati rende lo scontro duro nei toni ma quasi inutile nella sostanza, mentre a Bruxelles si trovano, come quasi sempre, compromessi al ribasso e di corto respiro. Si finisce così per dimenticare il dato di fondo che la stagnazione demografica è una delle debolezze strutturali del continente, e che può essere affrontata soltanto a livello aggregato.

Nel caso dei flussi migratori, il “sottinteso” è che non si è creato un vero consenso sulla gestione dei confini (sia esterni che interni) dell’Unione. Non si è mai realmente discusso, infatti, del valore di una tutela comune delle frontiere in quanto attributo fondante dello Stato moderno – e quindi di qualsiasi versione federale o confederale innovativa che comunque allo Stato moderno si ispira. Soltanto dopo aver fissato questo paletto concettuale si possono definire con più precisione le opzioni di policy.

Su tale sfondo, diventa più chiaro perché l’Europa si sia trovata così impreparata a gestire l’impatto di mega-trend globali, sia in chiave economica che migratoria, come anche di sicurezza (dalla Libia alla Siria, fino all’Afghanistan ma anche al Mali o al Sud Sudan) spingendo i propri cittadini a cercare rifugio nelle varie “piccole patrie” ancestrali.

Per tornare alla vicenda greca e ai suoi vari strascichi, c’è da sperare che la vera crisi strutturale – quella dell’euro – abbia insegnato a trattare le questioni “macro” dell’Unione Europea (o almeno di una parte centrale di essa, l’eurozona) come questioni di rango costituzionale. Sapendo anche, naturalmente, che le Costituzioni stesse sono creazioni storiche, non tavole di pietra in cui sono iscritti dei comandamenti di origine divina. Proprio in quanto frutto di creatività politica, l’assetto costituzionale che l’Europa si deve dare per prosperare richiede una visione lungimirante delle esigenze comuni dei suoi membri, riconoscendo sia i rapporti di forza sia le legittime aspirazioni di tutti i componenti. Non c’è una vera alternativa.