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L’Africa in un mondo di prezzi del petrolio moderati

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Nel 2007, il prezzo del petrolio era di circa 130 dollari al barile: ai principali produttori in Africa, tra cui la Nigeria, l’Angola e il Gabon, era stato consigliato di strutturare i loro bilanci prendendo un prezzo di riferimento più basso intorno ai 65 dollari al barile. L’obiettivo era accumulare risparmi in fondi di stabilizzazione per il futuro, per far fronte a eventuali shock petroliferi e a veri crolli del prezzo del greggio. In quella fase, non era però chiaro da dove potessero provenire questi shock futuri.

Nel giugno 2014, la maggior parte delle previsioni dell’OPEC sulle forniture di petrolio prodotto dai suoi paesi membri erano ancora corrette, ma le regioni chiave dell’economia mondiale, principalmente la Cina e l’eurozona, cominciavano a registrare un rallentamento della crescita che si traduceva in una riduzione della domanda di petrolio. Nel frattempo, gli impianti di trivellazione negli Stati Uniti continuavano ad aumentare e pompavano greggio in modo molto efficiente. Per un paese che nel gennaio del 2009 contava soltanto 200 impianti, due anni dopo, nel gennaio del 2011 il loro numero era salito a 1.600. Il 4 luglio dell’anno scorso gli Stati Uniti hanno potuto festeggiare ben più del Giorno dell’Indipendenza. Avevano superato infatti l’Arabia Saudita e la Federazione russa diventando il più grande produttore mondiale di petrolio.

Verso la metà del 2014, prima che questi cambiamenti cominciassero a verificarsi, in Africa non si contavano le licenze di esplorazione, le notizie sulle scoperte di nuovi giacimenti e gli annunci di decisioni di investimento.

Total SA e CNOOC Ltd stavano acquisendo una partecipazione di un terzo dell’investimento di 8,7 miliardi di dollari per le attività di prospezione sulle rive del lago Albert in Uganda. In Nigeria, i grandi progetti offshore come Agbami (Chevron), Bonga (Nord e Nordovest) (Shell), Bonga (Sudovest) (Shell), Egina (Total SA), Bosi (ExxonMobil), Nsiko (Chevron), Uge (ExxonMobil), Zabazaba-Etan (ENI), Egina (Total SA) erano tutti in corso di approvazione o in esame, mentre in Angola, Chevron ed i suoi soci stavano festeggiando la produzione di quattro miliardi di barili nel “Blocco 0” al largo di Cabinda.

Gli effetti di questa nuova situazione dei mercati globali, che con alcune oscillazioni si sta consolidando, saranno diversi per i vari paesi dell’Africa. Nel caso di quelli più grandi, potrebbero essere considerevoli, sia in senso positivo che negativo. Ma un elemento comune a tutti è la carenza di capacità di gestione nel settore energetico. I modi in cui il potere politico ha risposto alle possibilità di incanalare le nuove risorse liberate verso la soddisfazione delle necessità vitali dei loro popoli, da un lato, o alla drastica diminuzione dei proventi della vendita di prodotti energetici per garantire i servizi e gli investimenti più essenziali, dall’altro, sono direttamente correlati alla capacità di governance.

L’Africa è particolarmente esposta a nuove decisioni di investimento poiché negli ultimi cinque anni quasi il 30% delle scoperte di nuovi giacenti di gas e petrolio sono avvenute nella regione subsahariana. Nigeria, Angola e Sud Sudan sembrano i casi più estremi di tensioni prodotte dalla rapida contrazione dei proventi petroliferi. In alcuni casi, paesi come il Kenya, la Costa d’Avorio, le Seychelles, l’Etiopia, la Liberia e la Sierra Leone, che hanno speso più del 15% del loro reddito per pagare il petrolio importato, potranno trovare sollievo dai prezzi molto più bassi. L’Egitto è un altro paese pronto a raccogliere i benefici dei costi più bassi dell’energia, che si tradurranno in forniture più abbondanti e in una riduzione delle tensioni sociali. 

Il caso della Nigeria è speciale per le dimensioni del paese, che è il più grande produttore africano di gas e petrolio e fa notizia per molte altre ragioni e per le minacce che rappresenta. Gas e petrolio costituiscono l’80% delle entrate del governo della Nigeria, e il 95% della valuta estera di questo paese che aveva cercato di utilizzare i prezzi di riferimento di 74 dollari al barile potendo così accantonare eccedenze per creare un fondo sovrano del valore di 1 miliardo di dollari.

Anche l’Angola, un paese vicino della Nigeria lungo la costa del Golfo di Guinea, ha problemi per molti aspetti simili. È il secondo più grande produttore di petrolio dell’Africa, ma i suoi vecchi giacimenti stanno cominciando a mostrare la loro età, mentre i nuovi progetti sono molto costosi e non possono essere sostenuti dai prezzi del petrolio ai livelli attuali.

Paesi come la Tanzania, l’Uganda e il Kenya hanno registrato aumenti dei loro indici azionari rispettivamente del 27%, del 18% e del 16% (anno su anno) a fronte di un calo dei prezzi del petrolio, poiché hanno cercato di sviluppare economie non dipendenti dalle esportazioni di greggio, o almeno non ancora.

Ci sono poi cambiamenti nell’azione dei grandi attori esterni, a cominciare dall’Arabia Saudita: negli ultimi tempi i sauditi hanno esercitato la loro influenza attraverso il Consiglio di cooperazione del Golfo anziché attraverso l’OPEC. Ciò si traduce in una perdita di influenza geopolitica dei paesi africani rispetto a quando i punti di vista della Nigeria e dell’Angola avevano una reale incidenza sulle decisioni finali che venivano prese dall’OPEC.

Per i paesi africani è bene ormai che ciascuno trovi una propria via in tempi così incerti, che sarà diversa a seconda che si tratti di importatori o esportatori di petrolio. Questo sembra essere comunque il momento più opportuno per eliminare i sussidi petroliferi, in tutti i paesi, a un minor costo politico, sostituendoli con un sostegno più mirato alle fasce più deboli della popolazione. Ed è anche un buon momento per incidere maggiormente sui redditi interni, soprattutto attraverso le imposte sulle persone e sui consumi in modo da garantire meglio la fornitura di servizi sociali e rafforzare le finanze pubbliche.

O paesi importatori di petrolio hanno l’opportunità di impiegare i risparmi inattesi derivanti dal ribasso dei prezzi del petrolio per realizzare politiche di investimento giudiziose con lo sguardo ben puntato sul futuro, quando potranno tornare prezzi più alti.

Per i paesi esportatori di petrolio, invece, la domanda da porsi è se hanno accumulato abbastanza riserve grazie ai prezzi più alti del passato, in modo da poterne utilizzare una parte per far fronte a deficit fiscali più grandi mentre le finanze pubbliche devono adeguarsi ai minori introiti. Se le riserve sono scarse o inesistenti, le opzioni possibili si riducono alla realizzazione di risparmi urgenti per abbassare i costi ed eliminare quante più spese superflue o non essenziali è possibile.

In ogni caso, la speranza è che il maggior numero possibile di Stati africani trovi la giusta capacità di leadership e gli strumenti per rendere proficua questa fase di grande incertezza.