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Il cuore tedesco del problema europeo

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La vittoria del “no” al referendum popolare del 5 luglio scorso in Grecia sembrava poter inaugurare una fase completamente nuova nella storia dell’integrazione economica e monetaria dell’Unione. Un governo nazionale, democraticamente legittimato e forte di un responso elettorale inequivocabile, rispediva al mittente le condizioni per ottenere una linea di credito da parte dei propri pari.

Una volta accantonato il duro regime di condizionalità, gli scenari che parevano profilarsi in un orizzonte quanto mai prossimo erano sostanzialmente due: prima ipotesi, una radicale trasformazione dell’Unione economica e monetaria, nel senso di una istituzionalizzazione dei meccanismi permanenti di perequazione fiscale e di comunione dei debiti pubblici (quella che in Germania, con un pizzico di terrore, è chiamata Transferunion); ipotesi alternativa, l’uscita dalla moneta unica di uno Stato membro (l’ipotesi del Grexit). In entrambi i casi, l’architettura economica e finanziaria dell’eurozona come l’avevamo conosciuta da Maastricht fino a oggi sarebbe radicalmente cambiata.

Il compromesso raggiunto nella notte tra il 12 e il 13 luglio scorsi all’Euro Summit ha ribaltato questa prospettiva. Non basta un governo nazionale, ancorché legittimato da un plebiscito, a innescare un mutamento degli assetti istituzionali fissati da un Trattato. Di più: in un’unione economica e monetaria, un governo nazionale non può sottrarsi al giudizio dei propri pari. Al contrario, più ancora del proprio popolo, un governo di uno Stato membro deve godere della fiducia dei propri pari per poter essere parte attiva di un’unione economica e monetaria stabile.

Ecco, quindi che l’ipotesi più recessiva e improbabile all’indomani del referendum è tornata attuale la scorsa settimana: l’integrazione economica e fiscale lenta e asimmetrica, imperniata sul metodo intergovernativo e fondata sul regime di condizionalità. La cessione di sovranità da parte degli Stati membri all’Unione continua cioè a essere il risultato di uno “stato di eccezione” più che un disegno preciso dei “signori dei trattati” e, in particolare, della cabina di regia franco-tedesca.

All’interno di questo quadro è possibile spiegare anche la divergenza di vedute tra la Cancelliera tedesca, Angela Merkel e il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble. Mentre la Cancelliera ha sempre sottolineato la necessità di trattare, anche a oltranza, pur di ottenere una conferma del suo metodo e della sua gestione della crisi, il ministro delle Finanze ha aperto (ancorché soltanto in un primo tempo) ad uno degli scenari che il referendum greco rendeva imminente: il Grexit.

Questo disallineamento ai vertici del governo federale, che ha relegato il partito socialdemocratico e il ministero degli Esteri (che ne è espressione) nel ruolo di attori invisibili, non ha origine soltanto nel temperamento più mite e riflessivo dell’una o in quello più esuberante e impetuoso dell’altro. Per quanto la signora Merkel stimi e consideri il settantatreenne Schäuble imprescindibile per dare credibilità alla sua agenda europea, i due hanno, non da ieri, idee alquanto diverse sul futuro dell’Unione Europea. Mentre la Cancelliera appare priva di uno slancio ideale verso grandi progetti di federalizzazione e bada più alla conservazione dell’esistente e a controllare il barometro del consenso, il ministro delle Finanze, quale ex-delfino di Helmut Kohl, ha una visione abbastanza chiara di come l’Unione dovrebbe svilupparsi da qui ai prossimi cinque-dieci anni. Nel suo intervento pubblicato dal settimanale tedesco Die Zeit, l’ex-ministro delle Finanze ellenico, Yanis Varoufakis, ne ha ben compreso i termini, anche se poi ha erroneamente etichettato il piano con l’aggettivo “neo-liberista”.

Il piano di Schäuble, lungi dall’essere segreto o dall’essere stato compreso dal solo Varoufakis, è comunque abbastanza noto. Ne ha tratteggiato le linee fondamentali lo stesso ministro tedesco in un articolo per il Financial Times del maggio dello scorso anno e, prima ancora, in un paper intitolato Reflections on European Policy, risalente al lontano 1994. Entrambi gli scritti sono stati firmati anche da Karl Lamers, giurista come Schäuble e dirigente cristianodemocratico con un passato nell’assemblea parlamentare della NATO. Ebbene, l’idea è di un’integrazione europea a geometrie variabili o, come si usa dire, a più velocità: a secondo degli ambiti o delle materie, esisterà un nocciolo duro di Stati desideroso di approfondire l’integrazione e un gruppo di Stati che invece deciderà di conservare i propri poteri sovrani.

Nell’eurozona, la cessione di sovranità dovrebbe consistere in particolare nella creazione di un Parlamento dei diciotto Stati della moneta unica e nell’istituzione di un commissario speciale, capace di bocciare i bilanci preventivi degli Stati membri che non siano conformi ai parametri individuati dai Trattati (il cosiddetto Sparkommissar).

Quest’ultima proposta è emersa anche ufficialmente, nel gennaio 2012, sempre in sede di eurogruppo e sempre con riferimento alla Grecia, ma fu subito accantonata dopo le proteste di alcuni Stati membri, tra i quali la Polonia dell’allora premier Donald Tusk. Anche in quella circostanza, come è accaduto a metà luglio con le proposte di un Grexit temporaneo e di un controllo dei proventi delle privatizzazioni da parte dell’Institution for Growth in Greece (a sua volta controllato dalla Cassa Depositi e Prestiti tedesca, il KfW), fu la Cancelliera Merkel a stemperare i toni e a ridimensionare il contenuto di quelle idee dirompenti messe nero su bianco da Schäuble. Un inasprimento della sorveglianza dell’Unione, del resto, è stato comunque raggiunto con l’approvazione dei cosiddetti Six Pack e Two Pack, rispettivamente nell’autunno 2011 e nella primavera 2013. Oggi si può dire che, con l’accordo negoziato all’eurogruppo e concluso all’Euro Summit, lo Sparkommissar stia informalmente muovendo i primi passi e incarni le sembianze dell’olandese Jeroen Dijesselbloem – tecnicamente presidente dell’eurogruppo.

Sennonché, a Schäuble è stata finora preclusa la strada più congeniale per la realizzazione del suo progetto, quella dell’Europa a più velocità. Per quanto la stessa Angela Merkel, in passato, non abbia fatto mistero di poter un giorno accettare un’integrazione asimmetrica, oggi la Cancelliera cerca ancora di mantenere unita e compatta l’eurozona consegnatale da Kohl. Come ha spiegato nel suo discorso al Bundestag del 18 luglio, non è possibile non offrire un’ultima chance alla Grecia. Ne va non solo dell’euro, ma anche dell’Europa come comunità politica fondata sul principio solidaristico. Alla fine, lo stesso Schäuble, ottenuto un simulacro di Sparkommissar in grado di imporre condizioni severe ad Atene, si è riallineato al pensiero della Cancelliera, anche se, dalle colonne del settimanale Der Spiegel, ha minacciato di rassegnare le dimissioni nelle mani del capo dello Stato, qualora la gestione della crisi da parte di Berlino prendesse una piega tale da non rispecchiare più le sue convinzioni.

Ad oggi, tra le convinzioni granitiche di Schäuble ve n’è in particolare una, intorno alla quale il rapporto con la signora Merkel potrebbe deteriorarsi nei prossimi mesi. Forte di un sostegno crescente nel gruppo parlamentare della CDU/CSU, il ministro delle Finanze tedesco ha ripetuto sino alla noia che un taglio del valore nominale debito greco non potrà mai esservi, fin quando la Grecia rimarrà all’interno dell’Unione economica e monetaria. Lo vieterebbero i Trattati e in particolare l’Art. 125 TFUE, che stabilisce il cd. divieto di bailout di uno Stato da parte di un altro. Secondo Schäuble un haircut avrebbe effetti deleteri anche per la disciplina fiscale degli altri Stati dell’Unione, dal momento che ridurrebbe la pressione degli investitori a mantenere la finanza pubblica in ordine.

In realtà, anche secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, una ristrutturazione del debito nei confronti dei creditori pubblici sarebbe ammissibile purché ancorata al rispetto di alcune condizioni da concordare con gli stessi creditori e inerenti in particolare il mantenimento di una sana politica di bilancio. In altre parole, sia la BCE, sia i veicoli di stabilizzazione EFSF ed ESM non violerebbero i Trattati se accettassero una ristrutturazione (condizionata) del debito greco.

Su questo punto, però, le opinioni di Merkel e Schäuble divergono. D’altro canto, è più probabile che allo scenario di una rottura tra i due, che pure non si può escludere, prevalga la via del compromesso. In alcune recenti dichiarazioni, la Cancelliera ha accantonato l’ipotesi che i Trattati possano essere emendati per disciplinare la procedura di insolvenza per uno Stato membro dell’eurozona, ma ha aperto, da un lato, a nuove misure per completare il governo economico europeo e, dall’altro, a un alleggerimento del peso del debito greco, non appena le riforme promesse da Atene saranno state varate. Per alleggerimento non si intende ovviamente un taglio netto del valore nominale dei titoli né una rinuncia ai prestiti, ma soltanto un allungamento delle scadenze per il loro rimborso.

Questa opzione rappresenta comunque una forma di ristrutturazione del debito; e sarebbe ad oggi condivisa con il ministro delle Finanze francese, Michel Sapin, e con gli altri partner internazionali, tra cui l’FMI. Resta solo da capire se Schäuble si piegherà alle manovre morbide della Cancelliera e, in tal caso, quale sarà la contropartita in termini di maggiore accentramento dei poteri di sorveglianza e veto in materia economica, fiscale e di bilancio.