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Il cammino europeo per Serbia e Croazia, e il fattore Russia

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Fin dal primo Accordo centroeuropeo di libero scambio, i meccanismi di pre-adesione all’Unione Europea hanno costituito degli indispensabili strumenti per una progressiva integrazione politico-economica dell’ex blocco sovietico nelle strutture occidentali. Ciò è stato tanto più vero per i Paesi dei Balcani occidentali, emersi dalle ceneri di un paese per molti versi peculiare – socialista ma non direttamente nell’orbita sovietica: Croazia e Serbia in primis, reduci dall’esperienza del conflitto e ancora in piena transizione post-socialista. Mentre per la prima l’adattamento è stato più veloce ed è culminato con l’ingresso nell’UE nel luglio 2013, tale percorso è ancora in corso per la Serbia, che solo nel 2012 ha ottenuto la candidatura ufficiale.

Nell’ottica della full membership, gli accordi di libero scambio e i programmi di assistenza pre-accesso adottati dopo il Consiglio Europeo di Salonicco del 2003 hanno sostenuto la realizzazione di riforme strutturali, contribuendo a migliorare in misura significativa i rispettivi indicatori macroeconomici. L’abbattimento di quasi tutte le barriere tariffarie e delle restrizioni quantitative ha aumentato il volume degli scambi commerciali con l’UE, rendendo Croazia e Serbia i principali partner economici nei Balcani occidentali.

La privatizzazione del settore bancario ha poi permesso un’integrazione dei mercati finanziari e di capitali (gli istituti europei detengono oltre il 70% degli assets bancari); il progressivo allentamento delle ipotesi di rischio ha infine incentivato l’attrazione di investimenti diretti esteri (IDE) in aree di rilevanza strategica. Nel 2008 Croazia e Serbia erano i principali Paesi dei Balcani occidentali destinatari di flussi di IDE (rispettivamente 23 e 15 miliardi di dollari).

Tale euroisation, tuttavia insieme con gli effetti di un mancato completamento della ristrutturazione interna e l’accumulo di debito estero – ha inevitabilmente esposto entrambi i Paesi alla crisi congiunturale del 2008/2009 e a quella dell’eurozona. Sia Croazia che Serbia si sono trovate nell’obbligo di cercare anche altrove i flussi di denaro necessari ai propri equilibri di bilancio.

Guardando alla Croazia, spicca la consolidata interdipendenza con la UE ma anche l’apertura ad altri possibili partner importanti. Sebbene la UE nel suo complesso stia entrando nel sesto anno di recessione, i fondi di provenienza europea – almeno 13 miliardi di euro per il periodo 2014-2020 – faranno dell’Unione il principale partner di Zagabria anche nel lungo periodo. Ciononostante, la Cina non ha lesinato il proprio interesse a ritagliarsi un’importante fetta di mercato sull’Adriatico imbastendo le trattative per l’acquisizione di una concessione pluriennale sui porti di Rijeka e Ploče per un ammontare di circa 13 miliardi di dollari. Allo stesso modo la partecipazione dal 2012 al progetto South Stream, attraverso la realizzazione del tratto secondario Sotin-Slobodnica, potrebbe stimolare le relazioni russo-croate – mai pienamente decollate nonostante i tentativi di cooperazione proprio nel settore energetico tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila – e aumentare la dipendenza di Zagabria da Mosca.

Sberbank, il maggiore istituto bancario nella Federazione Russa e nell’Europa orientale ha dichiarato di voler aprire 30 filiali in Croazia e di voler sostenere l’economia croata attraverso nuove linee di credito – scenario su cui tuttavia peserebbero le sanzioni poste nei suoi confronti nell’ambito della crisi ucraina.

È comunque ben più stretta la special relationship tra Serbia e Russia – che affonda le radici nella vicinanza storica e culturale e nella visione geostrategica che il Cremlino ha della Repubblica balcanica. Il rapporto bilaterale si è concretizzato con la firma nel 2000 di un accordo di libero scambio (il primo che Mosca ha siglato al di fuori della Comunità degli Stati Indipendenti). Tra il 2003 e il 2012 sono giunti in Serbia investimenti russi per circa tre miliardi di dollari, principalmente nel campo dell’oil and gas grazie alle acquisizioni strategiche della Beopetrol e della Naftna Industrija Srbije da parte di Lukoil e Gazprom. Inoltre, la joint-venture con South Stream ha permesso la ristrutturazione delle raffinerie di Novi Sad e Pančevo distrutte dai bombardamenti NATO del 2009. La Dichiarazione di Partnership Strategica siglata nel maggio 2013, che secondo la Camera di Commercio serba ha un potenziale di sette miliardi di dollari, è stata peraltro preceduta da un accordo intergovernativo sull’apertura di un credito di 500 milioni – di cui 300 immediatamente disponibili per un finanziamento del deficit di bilancio.

Lo scorso anno la Russia ha inoltre programmato aiuti per ulteriori 800 milioni in progetti infrastrutturali per la modernizzazione della rete ferroviaria e l’agganciamento ai Corridoi 10 e 11, oltre a cinque miliardi per i prossimi tre anni nel settore energetico. Le previsioni sulla cooperazione russo-serba in quest’ultimo ambito devono però tener conto di una certa reticenza interna al governo ad un’estensione del soft power russo nell’area balcanica e – se l’obiettivo resta l’ingresso nell’UE – dei vincoli imposti dal Terzo Pacchetto Energia sviluppato dalla Commissione Europea (e, non a caso, contestato dalla Russia in sede WTO).

Sono considerazioni che si legano a doppio filo con gli eventi della crisi ucraina e che pongono Belgrado nella difficile condizione di dover equilibrare la posizione politica con gli interessi e le prospettive economiche. Un rafforzamento delle relazioni con la Cina, attive dal 2009 e che investono innanzitutto le infrastrutture (su tutte il ponte sul Danubio tra i quartieri belgradesi di Zemun e Borča e la sezione serba del Corridoio 11), è indubbiamente un’ulteriore freccia all’arco del governo serbo, impegnato a trovare nuovi investitori per la privatizzazione di 500 aziende. Si profilano all’orizzonte investimenti da 1,2 miliardi di dollari da parte della China National Electric Engineering Co., mentre sono in corso trattative con la Banca di Sviluppo Cinese per la creazione di una zona economica libera sul Danubio.

Pur avendo la recente vittoria del Partito Progressista Serbo significato una definitiva scelta filo-europea, le opzioni economico-imprenditoriali della Serbia si basano su un dato di fatto: nonostante dal 2000 lo spettro partitico si sia allargato su posizioni più europeiste e dal 2008 il tema dell’integrazione europea sia salito in cima all’agenda di governo e si sia snodato sul problema del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, il dibattito politico sull’UE è rimasto essenzialmente astratto. L’impatto della crisi e la necessità di un maggior consolidamento dell’economia ha ora imposto la conduzione di una politica economica di più ampio respiro.

Anche in Croazia, dopo i primi grandi entusiasmi filo-europei, l’euroscetticismo si è comunque diffuso, a causa delle condizioni poste dai negoziati d’accesso all’UE, dal peggioramento delle condizioni economiche e dal senso di sfiducia nei confronti della classe politica. Tuttavia, la convinzione che non vi sia un’alternativa all’opzione europea ha pragmaticamente dirottato la società verso l’UE.

A 11 anni di distanza dal Consiglio Europeo di Salonicco che aveva tracciato un futuro europeo per tutti i Paesi della ex-Jugoslavia, i fattori endogeni a ciascuno di questi – come nel caso di Croazia e Serbia – hanno rivelato serie difficoltà: non solo quella di procedere alla stessa velocità degli Stati-membri già pienamente integrati, ma anche l’obbligo per i loro governi di lavorare su due binari – quello politico e quello economico – che non sempre hanno coinciso e hanno portato nella stessa direzione.

L’europeizzazione è stata dunque accompagnata da ombre e lacerazioni politico-sociali e ha mostrato limiti evidenti (soprattutto per la Serbia); eppure, è un percorso assodato e irreversibile. Nessun altro attore – eccetto in qualche misura la Russia limitatamente al caso serbo – sembra capace di sviluppare un soft power concorrenziale nei confronti dell’UE.