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La Siria circondata: Israele, l’Iran, e la guerra civile

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Quando lo scorso 30 gennaio il governo siriano ha denunciato l’incursione aerea israeliana a pochi chilometri da Damasco, Gerusalemme è stata la prima a sorprendersi. Infatti, sebbene una risposta militare da parte siriana fosse da escludere, è la prima volta che un paese colpito da Israele si affretta a rendere pubblico l’accaduto fornendo dettagli sull’attacco.

Il 30 gennaio, cacciabombardieri dell’aviazione israeliana hanno violato lo spazio aereo siriano per colpire un presunto convoglio di missili terra aria SA-17 (di fabbricazione russa) probabilmente destinato a Hezbollah. La televisione di Stato siriana ha mostrato le immagini di un attacco a Jamarya, un centro di ricerche militari a meno di venti chilometri dalla capitale. La mancanza di ulteriori dettagli da parte siriana e l’ambiguità delle dichiarazioni israeliane non hanno permesso di accertare se, effettivamente, siano stati colpiti più obiettivi.

La tensione è aumentata il giorno successivo, quando il ministro degli Esteri siriano ha consegnato una lettera di protesta alle Nazioni Unite condannando Israele e dichiarando il diritto del proprio paese all’autodifesa. L’incursione è stata immediatamente condannata dagli alleati di Assad: Iran, Hezbollah e Russia. 

I funzionari israeliani avrebbero preferito “non confermare, non smentire” – così da mantenere un basso profilo ed evitare un peggioramento dello scontro – non rilasciando commenti.

Solo il 3 febbraio, a margine della Conferenza sulla Sicurezza a Monaco, il ministro uscente della Difesa israeliano Ehud Barak ha dato la prima conferma indiretta dell’attacco. Barak ha detto di non poter “aggiungere nulla a quello finora letto sui giornali circa l’accaduto in Siria”, ma ha aggiunto che l’attacco è “un’ulteriore prova che quando diciamo qualcosa, facciamo sul serio. Avevamo dichiarato che non avremmo acconsentito al trasferimento di sistemi di armi avanzate dalla Siria ad Hezbollah in Libano”.

Lo stesso giorno è arrivata da Damasco la prima dichiarazione ufficiale del presidente siriano Bashar al Assad che ha accusato Israele di destabilizzare il paese e ha affermato che la Siria “è in grado di affrontare minacce e aggressioni”. Non è un caso che la prima dichiarazione ufficiale sia stata resa da Assad insieme al segretario nazionale del Consiglio di Sicurezza iraniano Saeed Jalili, il quale ha riconfermato il pieno sostegno dell’Iran “al popolo siriano di fronte all’aggressione sionista e il suo continuo coordinamento per far fronte ai complotti e ai progetti stranieri”.

Ad ogni modo la Siria, così come non fu in grado di rispondere al bombardamento israeliano ad un presunto reattore nucleare in costruzione nel nord del paese nel 2007, non lo è tutt’oggi, dilaniata da quasi due anni di guerra civile. Anche il cyber-attacco del fantomatico “Esercito Elettronico Siriano” contro un numero imprecisato di siti istituzionali e di informazione israeliani è stato di scarso rilievo.

In Siria si sta combattendo molto più di una guerra per deporre il regime di Assad: dal futuro del paese dipenderà l’assetto geopolitico del Medio Oriente, dal sempre più imminente conflitto tra Israele e l’Iran allo scontro tra “l’asse di resistenza” sciita e l’Islam sunnita. Da trent’anni, Damasco vanta col regime degli ayatollah un’alleanza privilegiata, che non ha mai vacillato nonostante le diverse vedute fra i due paesi sulla pace con Israele – l’Iran la rifiuta in via di principio, la Siria la accetta a condizione della restituzione delle alture del Golan occupato dal giugno 1967. L’Iran fornisce alla Siria tecnologia civile e militare, risorse energetiche e capitali (nel 2011 la banca centrale siriana avrebbe ricevuto 6 miliardi di dollari per il sostegno della propria valuta). Almeno dal 1982 attraverso la Siria transitano i rifornimenti al movimento sciita Hezbollah. Si tratta di armi di vario genere, compresi i missili terra-aria e di contraerea che altererebbero l’equilibrio di forze nello scontro con Israele – la linea rossa che lo stato ebraico non tollera venga superata.   

In questo contesto si inserisce l’attacco israeliano di fine gennaio. Già lo scorso anno, Efraim Halevy, ex direttore del Mossad ed ex consigliere per la sicurezza nazionale, spiegò che il rovesciamento del regime siriano avrebbe indebolito l’Iran in maniera decisiva. Nel suo appello per un governo di unità nazionale, il premier Netanyahu non ha fatto riferimenti alla Siria, ma ha parlato della “suprema missione in un momento decisivo della nostra storia” per fermare l’Iran prima che si doti di armi nucleari.

Netanyahu ha incluso la questione siriana nella sua agenda politica solamente il 10 febbraio, annunciando la visita del presidente americano Obama in Israele il prossimo 20 marzo, aggiungendo che “si è convenuto di discutere di tre argomenti principali: il tentativo dell’Iran di dotarsi di armi nucleari, la situazione instabile in Siria e gli sforzi diplomatici per riprendere il processo di pace con i palestinesi”. La visita di Obama è di estrema importanza in questo momento: Israele si sta dimostrando un attore geopolitico sempre più nervoso e sembra abbia tutte le intenzioni di attaccare l’Iran prima della prossima estate. Il raid aereo a Jamarya ed i continui sconfinamenti nei cieli del sud del Libano delle scorse settimane (non confermati da Israele) fanno probabilmente parte della fase preparatoria (e provocatoria) contro i due più stretti alleati dell’Iran. È assai prevedibile che il presidente americano metta in guardia il premier israeliano dei rischi di un attacco solitario ai siti nucleari iraniani prima che la strada dei negoziati non sia stata completamente abbandonata.

L’alleanza tra Siria, Iran e Hezbollah ha ripercussioni anche sulla politica interna siriana. Lo scontro in atto è una vera guerra per detronizzare il governo della famiglia Assad appartenente della minoranza alawita (la cui religione è considerata una propaggine eretica dello sciismo), a favore della maggioranza sunnita. I gruppi di opposizione sono armati e finanziati dalle monarchie sunnite del Golfo e dalla Turchia (anch’essa sunnita), avversi all’ideologia ba’thista, al carattere secolare e pseudo-repubblicano, all’economia socialista del regime siriano, oltre alla continua ingerenza in Libano e alla pretesa di svolgere un ruolo regionale nonostante le scarse potenzialità.

Paradossalmente, l’attacco israeliano potrebbe aver temporaneamente allentato la pressione interna, spingendo esponenti dei principali gruppi di opposizione a condannare il bombardamento e a rivendicare la sovranità del paese. In tale contesto intricato, la sorprendente capacità di resistenza del regime e il pragmatismo mostrato nell’affrontare le difficoltà continuano a rendere difficili ogni previsione su una imminente caduta di Assad.