Il primo aprile ha segnato un momento di svolta per il futuro politico del Myanmar. Nelle elezioni di medio termine la National League for Democracy, guidata da Aung San Suu Kyi (che ha trascorso molti degli ultimi ventidue anni in una forma di arresti domiciliari) ha conquistato 44 dei 45 seggi in palio. La vittoria della NLD è stata accolta con favore dalla comunità internazionale e dai governi occidentali che la considerano come un momento fondamentale per il processo di apertura e democratizzazione del paese.
Tuttavia, queste elezioni non rappresentano necessariamente una svolta irreversibile verso la democrazia. In primo luogo, erano in palio soltanto 45 su un totale di 659 seggi parlamentari. Nonostante il trionfo del primo aprile, gli esponenti del NPD avranno un ruolo minimo negli equilibri politici del paese, almeno nel breve periodo. Il sistema politico birmano, inoltre, è un regime ibrido: la costituzione del 2008 garantisce ai militari il controllo del governo e di un quarto del parlamento. Le elezioni del 2010 che hanno portato al potere il Union Solidarity and Development Party, il partito sostenuto e guidato dai militari, sono state largamente controllate e falsate dal governo, che ha escluso la NLD dalla competizione. Inoltre, il processo di privatizzazione economica ha portato alla concentrazione delle risorse nelle mani dei militari e delle loro famiglie.
Anche se il governo civile guidato dall’attuale presidente Thein Sein ha intrapreso una serie di riforme significative, il processo di apertura del regime deve essere considerato più come una “liberalizzazione difensiva” che una vera e propria transizione alla democrazia. In altre parole, per preservare il proprio controllo del potere il regime tenta di alleggerire la pressione interna ed esterna attraverso una parziale inclusione delle opposizioni nella dialettica politica.
Dalla sua instaurazione nel 1962, il regime militare ha cambiato pelle più volte, alternando fasi di apertura e fasi di repressione brutale. Nel 1974 venne approvata una nuova costituzione che prevedeva l’attuazione della “via birmana al socialismo”. Di fatto ciò comportò la chiusura del paese e una fase di prolungata stagnazione economica. Nel 1988 il regime represse nel sangue le proteste della popolazione. Nel 1990 furono concesse libere elezioni, vinte dalla NLD e da Aung San Suu Kyi: il risultato non fu mai riconosciuto e le forze di opposizione furono messe fuori legge.
L’evoluzione della situazione in Myanmar è quindi incerta e condizionata sia da fattori interni sia da fattori esterni, in particolare dagli equilibri geopolitici regionali. I due fattori cruciali sono l’ influenza cinese e il recente re-engagement americano in Asia.
Dopo l’instaurazione delle dittatura, e ancor più dopo la repressione del 1988 e l’annullamento delle elezioni nel 1990, il regime birmano ha avuto come unico partner internazionale la Cina. Questo legame si è rafforzato nel tempo trasformando il Myanmar in uno stato cliente di Pechino.
Gli interessi cinesi in Myanmar sono molteplici. Il paese rappresenta, infatti, uno sbocco strategico, logistico e commerciale fondamentale sull’Oceano Indiano. La possibile costruzione di istallazioni militari in Myanmar permetterebbe al Pechino di raggiungere l’Oceano Indiano aggirando lo Stretto di Malacca, controllato dalla Marina americana. Il Myanmar rappresenta, inoltre, un importante corridoio logistico. Pechino ha avviato la costruzione di una serie di gasdotti e oleodotti, che congiungerebbero le coste birmane con le province dello Yunnan e del Guanxi.
L’altra questione fondamentale è quella delle risorse idriche. Pechino ha promosso la costruzione di un sistema di dighe e centrali idroelettriche, tra le quali spicca la diga Myitsone sul fiume Irawaddy, destinata a fornire elettricità alle province occidentali dello Yunnan e del Guizhou. La costruzione di infrastrutture come quella di Myitsone, che una volta completata sarebbe la diga più grande del mondo, mette in luce le contraddizioni che caratterizzano la posizione del governo birmano. Da un lato, la presenza cinese è un fattore di sviluppo e modernizzazione, oltre che l’unica fonte di sostegno diplomatico. Dall’altro, la costruzione di infrastrutture così imponenti da parte dei cinesi comporta costi e rischi, anzitutto perché esse amplificano la dipendenza economica e politica nei confronti di Pechino. Ma c’è perfino il pericolo di minare la stessa stabilità interna del regime: le dighe saranno infatti costruite in un territorio abitato in larga parte da minoranze etniche, in particolare dai kachin e karen(1). Questi ultimi hanno dato vita, dagli anni Settanta, a movimenti separatisti su base etnica, negando di fatto al regime il controllo di parte del territorio nazionale. I progetti cinesi, che comporteranno la ricollocazione forzata di circa 30.000 abitanti e un profondo impatto sull’ecosistema della regione, aumenteranno questa conflittualità .
Anche alla luce di tali preoccupazioni, il governo guidato da Thein e sostenuto dai militari sta tentando di diversificare la propria politica estera. L’apertura agli Stati Uniti, culminata con la visita di Hillary Clinton nel paese lo scorso dicembre, è il segnale più evidente della volontà del governo di ridimensionare la propria dipendenza da Pechino o almeno di alzare il prezzo della propria cooperazione. Il passo indietro dei militari successivo al 2010, da questo punto di vista, è sicuramente funzionale alla distensione con Washington.
Dal punto di vista interno, l’inclusione del NLD nel sistema politico è funzionale al tentativo di pacificazione e risoluzione dei conflitti etnici interni. La National League for Democracy è, infatti, molto popolare nelle zone ribelli e proprio Aung San Suu Kyi potrebbe svolgere il ruolo di mediatore tra i militari e i gruppi separatisti.
In conclusione, l’evoluzione del sistema politico del Myanmar sarà determinata dall’interazione tra gli equilibri geopolitici regionali e la difficile gestione della situazione interna. In ogni caso, un protagonista di questa nuova fase sarà il premio Nobel per la Pace del 1991, che il mondo ha imparato a conoscere per una battaglia democratica più che ventennale.
L’esercito rimane l’arbitro della situazione e probabilmente è ancora in grado di arrestare la transizione se questa arriverà a minare le fondamenta del suo controllo politico sulle istituzioni e sulle risorse economiche del paese.
(1)Una mappa della configurazione etnica del Myanmar e della sovrapposizione con le zone interessate dalle infrastrutture costruite dai cinesi http://www.stimson.org/programs/myanmar-map/