international analysis and commentary

L’Ungheria: calendario di una crisi politico-economica

349

Le settimane a cavallo tra 2011 e 2012 sono state davvero drammatiche per l’Ungheria. Il 16 dicembre l’Unione europea e il Fondo Monetario Internazionale hanno sospeso i colloqui con il governo di Budapest per l’elargizione di ulteriori presiti a causa della nuova legge che pone la Banca centrale ungherese sotto il controllo dell’esecutivo.

Il 19 dicembre, la Corte Costituzionale ha respinto per incostituzionalità diverse disposizioni contenute nella legge sull’informazione entrata in vigore all’inizio del 2011.

Il 1° gennaio, è entrata in vigore la nuova Costituzione, fonte di accesissime polemiche sia sul piano interno che su quello internazionale. Il 2 gennaio, centomila persone hanno protestato contro la nuova Carta fondamentale in occasione della cerimonia svoltasi al Teatro dell’Opera di Budapest alla presenza del capo del governo Viktor Orbán. Il 17 gennaio la Commissione europea ha avviato tre procedure di infrazione in merito alla nuova normativa che mina l’indipendenza della Banca centrale, dell’Autorità garante della privacy e della magistratura.

Il 18 gennaio, il primo ministro Orbán, intervenuto al Parlamento europeo per rispondere alle preoccupazioni sollevate dai rappresentanti degli eurogruppi, ha difeso l’operato del suo governo, assicurando interventi legislativi sulle norme oggetto delle procedure di infrazione, e ha rivendicato l’adozione della nuova Costituzione asserendo che, con la sua entrata in vigore, finalmente, è stata cancellata quella imposta dai sovietici (solo emendata nel 1989), che la Carta è stata voluta dal popolo che ha votato la Fidesz e che si fonda sui valori cristiani propri dell’Ungheria e dell’Europa. Il 21 gennaio, infine, si è svolta una grande manifestazione di sostegno al governo, promossa da alcuni giornali vicini al partito di maggioranza. Il governo di Budapest ha tempo fino al 17 febbraio per evitare che le procedure di infrazione si traducano in un deferimento alla Corte europea di giustizia.

L’Ungheria, dunque, inizia il 2012 con la necessità di affrontare quelle che sono percepite come le sue due principali, e connesse, emergenze: quella democratica e quella economico-finanziaria. L’opposizione, guidata dai sindacati di Szolidàritas e dalla società civile, costituitasi nell’associazione “Emd – un milione per la democrazia”, ha protestato con un’imponente manifestazione di piazza (100.000 persone su 10 milioni di abitanti) contro la nuova Costituzione e il tentativo operato da Orbán, soprannominato “Viktátor”, di instaurare un governo autoritario che riduce ai margini il dissenso. Un dissenso che, secondo i sondaggi del centro Szonda Ipsos, è in continuo aumento, stante il calo vertiginoso di popolarità del capo del governo (passato da un indice di gradimento pari a 47, al momento dell’elezione ad aprile 2010, al 27 di queste settimane) e della Fidesz (solo il 16% degli elettori oggi la voterebbe). Ma i partiti di opposizione non hanno le forze per contrastare la maggioranza di governo in parlamento (la Fidesz ha 262 seggi su 368) e non riescono a porsi come interlocutori credibili agli occhi della cittadinanza.

L’opposizione popolare è alimentata dalla grave crisi finanziaria che sta colpendo l’Ungheria, e che ha provocato forti ricadute sull’economia reale: il 30% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e molti, per il crollo del fiorino, non riescono a onorare i mutui contratti in valuta estera. Il fallimento del governo nell’affrontarla è sotto gli occhi di tutti, inizialmente aggravato dalla scelta di rifiutare gli aiuti internazionali, preferendo provvedimenti di carattere autarchico-nazionalista, che non hanno dato i risultati sperati.

Le difficoltà economiche del paese magiaro, “certificate” dal declassamento effettuato dalle agenzie di rating da BBB- a BB+, hanno molteplici cause. Da una parte, la transizione dall’economia socialista (per quanto aperta quale era il “socialismo di mercato” introdotto negli ultimi anni di regime) all’economia capitalista è stata condizionata dall’assenza di un’adeguata imprenditoria locale e da un sistema burocratico dominato dalla corruzione. Dall’altra, l’economia magiara è sempre stata dipendente dagli investimenti stranieri, diminuiti drasticamente dall’inizio del 2011, una volta chiaritesi le linee di politica economica del governo guidato dalla Fidesz. Il ricorso a prestiti dell’UE e del Fmi si era, inoltre, già reso necessario a ottobre 2008 (il tasso di crescita del Pil si attestò a 0,9% per crollare l’anno successivo a -6,8%), quando il paese ricevette 20 miliardi di euro per salvarsi dall’imminente bancarotta finanziaria.

L’Ungheria, dunque, entrata nell’Unione Europea nel 2004, è oggi sotto stretta osservazione comunitaria sia per le gravi difficoltà economiche sia per la deriva autoritaria che il governo guidato dalla Fidesz sta promuovendo. L’apertura di tre procedure di infrazione è di per sé un segnale importante da parte della Commissione europea. Tuttavia, la procedura adottata da Bruxelles è meramente tecnica, rifacendosi all’articolo 258 del Trattato di funzionamento dell’UE, e non politica: un riferimento all’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea avrebbe significato per l’Ungheria un’accusa di violazione dei principi democratici e rispetto dei diritti umani (sanciti dal trattato). In proposito, il presidente Barroso si è limitato a una breve citazione nella sua dichiarazione: “È essenziale che il governo ungherese rispetti pienamente tanto nello spirito quanto nella lettera le leggi ed i valori fondamentali della Unione europea. E non faccia montare preoccupazioni politiche più ampie”. La Commissione, probabilmente memore di quanto avvenuto nel 2000 con l’Austria di Haider, preferisce dunque adottare una linea politicamente “morbida”, confidando che la necessità di ricevere aiuti internazionali (la cui concessione è condizionata a precisi cambiamenti legislativi) sia sufficiente a spingere il governo ungherese a modificare le leggi incriminate.

Un elemento significativo, forse non tenuto nella giusta considerazione a Bruxelles, sta nel fatto che i timori dell’Unione sulla tenuta democratica del paese sono condivisi da una parte significativa dell’opinione pubblica magiara: le imponenti manifestazioni che si susseguono dall’ottobre scorso sono paragonabili per dimensione a quelle tragiche del 1956. Durante la stessa transizione del 1989, infatti, la popolazione è stata per molti versi solo spettatrice di quello che è stato definito un “regime change” (János Kis) e una “refolution” (Timothy Garton Ash) gestita dall’apparato politico esistente.

L’Unione Europea, quindi, avrebbe le carte il regola per porsi come riferimento politico per la popolazione; per farlo deve però ribaltare la scelta di anteporre le questioni economico-finanziarie a quelle di natura prettamente democratica (quali la deriva nazionalista e autoritaria della nuova Carta). Un atteggiamento di Bruxelles che fosse tutto incentrato sugli aspetti economici risulterebbe incomprensibile alla cittadinanza, con il rischio di alimentare ulteriormente un sentimento anti-europeista facilmente intercettabile dal populismo di estrema destra. Si tratterebbe di una deriva che non gioverebbe affatto alla causa europea.