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Le agenzie di rating e il dilemma europeo

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I mercati finanziari hanno snobbato la decisione di Standard & Poor’s prima, e di Fitch poi, di declassare un gran numero di paesi di Eurolandia. Questo non è sorprendente, in quanto il downgrade era ampiamente atteso, ed era già stato incorporato nei comportamenti degli operatori. La novità, questa sì sorprendente, è la motivazione del declassamento, non compatibile con l’ortodossia in materia economica che è di solito attribuita alle agenzie di notazione. Molti commentatori e leader politici hanno reagito al downgrade come se fosse motivato da insufficienti sforzi di riduzione del disavanzo, mentre Fitch, e soprattutto Standard & Poor’s rimproverano ai leader europei proprio l’esclusiva attenzione alle finanze pubbliche. A questo punto, non è tanto interessante chiedersi se i mercati reagiranno al downgrade, ma piuttosto se le ragioni addotte dall’agenzia di notazione contribuiranno ad un cambiamento delle politiche da parte dei leader europei. A giudicare dalla reazione di Angela Merkel, subito dopo il declassamento, non vi è molto margine per essere ottimisti.

Standard & Poor’s motiva la propria decisione con una diagnosi molto chiara dei problemi dell’eurozona: primo, il ben noto problema del debito pubblico; secondo, un problema di governance (“un contenzioso aperto e prolungato tra i responsabili politici europei a proposito dell’approccio corretto per affrontare le sfide future‘ ); infine, e questa è la novità, i persistenti squilibri esterni: “i problemi finanziari della zona euro sono anche e altrettanto una conseguenza dei crescenti squilibri esterni e delle divergenze di competitività tra il nucleo dell’UEM e la cosiddetta periferia “.

L’agenzia di notazione conclude che l’attenzione esclusiva dei leader europei sul consolidamento fiscale, in particolare nelle conclusioni del vertice del 9 dicembre scorso, non può rappresentare una soluzione duratura ai problemi della zona euro. Inoltre, sostiene Standard & Poor’s, “un processo di riforma basato sul solo pilastro dell’austerità fiscale rischia di diventare controproducente, in quanto la domanda interna si ridurrà, in linea con le crescenti preoccupazioni dei consumatori sulla sicurezza del posto di lavoro e sul proprio reddito disponibile, erodendo le entrate fiscali“. L’agenzia conclude che il rischio principale per i paesi della zona euro è un deterioramento delle finanze pubbliche indotto da “un contesto macroeconomico recessivo“. Questo porta a prevedere, nei prossimi mesi, ulteriori revisioni al ribasso dei rating.

Le agenzie di notazione, peraltro, sono in buona compagnia. Il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, ha prima di natale avvertito che la riduzione del debito è una maratona, non uno sprint, e che ci vorranno due decenni per tornare a livelli “normali”, mentre il capo del suo Dipartimento Affari Fiscali, Carlo Cottarelli, nota come consolidamenti troppo brutali potrebbero portare ad un aumento, non ad una riduzione degli spreads.

Se i paesi di Eurolandia prendessero sul serio l’analisi di Standard & Poor’s, dovrebbero abbandonare l’austerità, attuare politiche economiche per favorire la crescita (rendendo così il debito pubblico più sostenibile), e cercare di riequilibrare i deficit commerciali all’interno della zona euro. Questo duplice obiettivo può essere ottenuto solo se si consente ai paesi della periferia di spalmare il necessario consolidamento fiscale su un periodo sufficientemente lungo da minimizzarne gli effetti recessivi. Nel frattempo, i paesi eccedentari (in particolare la Germania) dovrebbero mettere in atto politiche espansive, rendendo chiaro che in un’unione monetaria eterogenea le politiche devono essere coordinate, ma non necessariamente sincronizzate, come a volte viene erroneamente suggerito.  L’effetto globale netto potrebbe quindi essere neutro o addirittura espansivo, pur preservando la sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche, e contribuendo a riassorbire gli squilibri commerciali all’interno della zona euro.

In questa prospettiva, la proposta tedesca (e francese) di un nuovo Trattato che rinforzi la disciplina di bilancio, approvata da 25 paesi durante il vertice informale del 30 gennaio,  potrebbe avere senso solo se accompagnata dall’impegno per un contributo più equilibrato di ciascun paese alla crescita della zona euro. L’UEM dovrebbe dotarsi di un meccanismo per un riequilibrio graduale degli squilibri commerciali, nello spirito della proposta di John Maynard Keynes. A Bretton Woods (1944) l’economista britannico sosteneva che la responsabilità degli squilibri globali ricade sui paesi in surplus tanto quanto sui i paesi in deficit, e preconizzava vincoli e sanzioni tanto sui sui deficit commerciali che sui surplus. 

Siamo pronti, e soprattutto, è pronta la Germania,  per una governance economica che sposti almeno in parte l’attenzione dalla disciplina fiscale agli squilibri commerciali? Ci sono altri modi di garantire quella soluzione duratura ai problemi dell’euro che al momento Standard & Poor’s non vede? Quel che è certo è che i paesi della zona euro non dovrebbero imbarcarsi in una nuova ondata di piani di rigore, che sarebbe in contraddizione con le ragioni stesse del loro declassamento.

Paradossalmente, proprio mentre riesce ad imporre agli altri paesi europei un trattato che riflette la sua idea di unione, la Germania appare un po’ più isolata. Il suo ostinato richiamo alla disciplina fiscale,  non solo non sembra  più – di per sé – rassicurare i mercati, ma sta spingendo l’intera economia europea verso una seconda recessione, e aumenta ogni giorno di più il rischio di un collasso della moneta unica.