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Intervista a Hassan Nafaa

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Hassan Nafaa è preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università del Cairo, esperto di relazioni internazionali ed editorialista su quotidiani indipendenti e liberali. Pur avendo criticato negli ultimi mesi la condotta della transizione da parte dei militari, è stato nominato membro del Consiglio Provvisorio creato dalla giunta militare l’11 dicembre scorso.

 “Siamo in una fase storica molto complessa.  Alcuni regimi autoritari sono crollati e altri continuano a vacillare, ma prima di vedere i frutti di una transizione serviranno anni, se non decenni. Ci sono potenze regionali e internazionali che non hanno interesse a portare a compimento le rivoluzioni iniziate in piazza. Stati come Israele e Stati Uniti cercheranno di sfruttare queste transizioni” dice Hassan Nafaa. “Anche l’Iran ha qualcosa da temere. Potrebbe favorire la caduta di alcuni regimi, ma non di tutti”.            

Mentre il sistema internazionale è in transizione e le potenze occidentali sono in crisi, alcuni regimi a lungo sostenuti dall’Occidente sono stati rovesciati da popolazioni che chiedono un’equa distribuzione delle risorse. Uno scontro tra modelli economici e sociali?

Non siamo davanti a una lotta di classe o a una sfida tra diversi sistemi economici. È vero che i regimi che sono crollati e quelli che sono in crisi erano alleati con gli Stati Uniti e avevano relazioni con Israele.  La questione centrale però non riguarda il sistema capitalista, ma il conflitto israelo-palestinese: gli Stati Uniti sono criticati non tanto per il loro sistema economico o i loro prodotti culturali, quanto piuttosto per il sostegno dato a Israele e al suo progetto sionista.  Lo stato ebraico è criticato per i suoi progetti di espansione, per la continua costruzione di insediamenti e per le  brutalità che commette sui palestinesi, non perché è uno stato capitalista.

Che ruolo può giocare l’Islam in questo momento di crisi?

Storicamente l’islam ha avuto un ruolo centrale nella resistenza contro le potenze coloniali e nella lotta di indipendenza di paesi come Algeria, Marocco ed Egitto. I regimi che sono nati dopo il colonialismo si hanno assunto posizioni essenzialmente laiche e hanno represso brutalmente ogni opposizione, tanto quella di sinistra che quella religiosa. Per decenni poi gli islamisti sono stati costretti ad agire nella clandestinità, ma ora che si sta arrivando a un multipartitismo questi possono giocare un ruolo centrale non solo nella storia di ogni singolo paese, ma anche in quella dell’intera regione araba e del complesso sistema globale caratterizzato da una fitta rete di  interconnessioni.  Le elezioni in Tunisia e in Marocco, e il primo turno delle votazioni egiziane hanno mostrato che sono i partiti degli islamisti moderati i quelli attualmente più organizzati. Dal loro comportamento dipenderà il futuro di questi paesi e le loro relazioni internazionali. In Egitto poi, il quadro islamista sta mutando: sulla scena non ci sono solo i Fratelli Musulmani,  ma anche i salafati. Questi comprendono contemporaneamente fazioni estremiste che fanno ricorso alla forza armata e gruppi che non hanno mai combattuto contro il presidente Mubarak (in base a un’interpretazione letterale dei passaggi del Corano nei quali si dice di non criticare le autorità). Gli Ikhwan  sono ora davanti a un bivio: possono decidere se allearsi con gli islamisti più radicali o coinvolgere i più liberali.  Se riusciranno a creare un certo consenso la transizione procederà e anche i militari potranno essere costretti a ritirarsi nelle loro caserme.

Quali possono essere le conseguenze della Primavera Araba sul sistema globale?

Bisogna ancora aspettare qualche anno per dirlo perché se l’ondata rivoluzionaria si espanderà coinvolgendo i paesi del Golfo le conseguenze per il sistema capitalista saranno importanti. A risentirne sarebbe non solo il prezzo del petrolio, ma l’intero sistema finanziario.  In tale ottica, queste rivoluzioni porterebbero infliggere il colpo finale al sistema capitalista. Le potenze emergenti crescerebbero ancora più in fretta, sottraendo influenza agli Stati Uniti  e all’Unione Europea.

Cosa ci dobbiamo aspettare allora per il futuro?

L’ideologia comunista della lotta di classe non potrà tornare in auge, ma anche le idee capitaliste non sono più credibili. Serve un nuovo sistema che garantisca giustizia sociale non solo tra le diverse classi all’interno dei singoli paesi, ma anche,  su scala globale, tra i diversi stati che rivendicano un ruolo nello scacchiere internazionale. Nessuna potenza può ormai pensare di ritornare  all’isolazionismo, perché le moderne comunicazioni hanno creato reti di connessioni che hanno coinvolto tutti e non possono essere tagliate. Questo processo richiede una trasformazione del sistema internazionale e delle istituzioni sulle quali si basa. Le Nazioni Unite devono essere riformate. È anacronistico pensare che esistano cinque potenze che hanno un potere di veto con il quale possono imporre la loro volontà a tutti gli altri stati del mondo. Ogni paese ora rivendica un ruolo e pretende di essere attore delle dinamiche globali che lo coinvolgono.

I paesi arabi in rivolta hanno un paese-modello al quale si ispirano? E che visione hanno della regione nel suo complesso?

No. Nella regione ci sono tre potenze che competeranno per avere la supremazia: Iran, Turchia e Israele. Il primo è un paese particolare che rappresenta le istanze sciite. Diversa è la Turchia, paese sunnita più moderato. Israele poi è l’unico stato non arabo della regione e riesce a beneficiare della competizione tra queste due anime dell’Islam. Nessuno di questi paesi ha interesse che si affermi nella regione un’ideologia simile al panarabismo nasseriano degli anni ’50. È ancora presto per dire se avrà maggior successo l’Iran o la Turchia, ma è chiaro che a pagarne le spese sarà soprattutto Israele. In ogni caso, il collasso dei regimi dispotici può portare alla creazione di istituzioni più democratiche anche nella regione araba, istituzioni che siano in grado di guidare le relazioni bilaterali in modo originale. Si potrebbe cercare un meccanismo di integrazione simile a quello europeo che può sfociare in un processo che porti alla creazione di un nuovo nazionalismo arabo. Diversamente di quello di Nasser che enfatizzava la dimensione politica, questo si concentrerebbe soprattutto su questioni economiche e sociali. Idee simili a quelle del “funzionalismo” che ha ottenuto buoni risultati in Europa potrebbero risultare vincenti anche nella nostra regione.