Sono ormai in molti – in Europa e altrove – a credere che la crisi sempre più grave del debito nella zona euro sia dovuta ad una pessima gestione politica dei problemi (pur reali e strutturali) che l’hanno innescata. Se è vero che la crisi ha dimostrato quanto più forti siano oggi diventati i mercati rispetto agli Stati, è soprattutto vero però che il succedersi di decisioni timide e parziali da parte dei governi, combinato ad una retorica pubblica inopportuna e spesso controproducente da parte di tanti, ha trasformato quella che all’inizio appariva una crisi isolata e tutto sommato contenibile in una vera e propria crisi sistemica, le cui ripercussioni vanno ormai ben oltre il continente europeo.
Quali che siano le gravi responsabilità (anche morali) della Grecia sui conti pubblici, le diffuse complicità dell’Irlanda verso le proprie banche, o le evidenti resistenze di altri paesi a intraprendere le necessarie riforme strutturali, non c’è dubbio che il modo in cui la Germania ha fatto degenerare la situazione nell’ultimo anno e mezzo merita un’attenzione tutta particolare. Non ci si faccia abbagliare dal marchio “Merkozy”: il fatto che le decisioni (o non-decisioni) principali siano state imposte per lo più dalla coppia franco-tedesca è soprattutto servito – oltre che ad irritare molti tradizionali alleati dei due paesi, dentro e fuori la zona euro – a mascherare la debolezza di Parigi e la forza di Berlino.
Nell’arco dei 18 mesi scorsi, le poche concessioni strappate da Nicolas Sarkozy a Merkel hanno riguardato la formalizzazione del Consiglio europeo a 17 (superando un’antica riluttanza tedesca), l’insistenza sul carattere intergovernativo della futura governance dell’euro e, soprattutto, il mantenimento di una sorta di veto politico di ultima istanza su eventuali sanzioni automatiche verso i governi nazionali – veto chiaramente dettato dal timore francese di dovervi (presto?) far ricorso, ma che rischia di essere (altrettanto presto?) superato dagli eventi.
Quanto alla forza della Germania – alla sua “leadership”, come si dice oggi – si è esercitata soprattutto in negativo: frenando e bloccando, cioè, ogni proposta o iniziativa che cercasse di affrontare in modo più strategico e comprensivo la crisi del debito; arrivando a criticare apertamente l’operato dell’istituzione che proprio la Germania aveva voluto creare a propria immagine e somiglianza (la BCE); e cercando ad ogni stadio della crisi di proporre la soluzione minima immaginabile per risolverla – salvo poi essere sistematicamente costretta dai mercati (che leggevano fin troppo bene il gioco) ad andare sempre un po’ più avanti, in una rincorsa che ha quasi finito per schiantare l’intera la zona euro.
Se l’obiettivo di Berlino era contenere gli esborsi per i contribuenti tedeschi, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: i costi dei vari salvataggi (passati, presenti e forse futuri) sono cresciuti in modo esponenziale dal febbraio 2010, e sarà proprio la Germania ad accollarsene la quota di gran lunga più alta.
Se l’obiettivo della coalizione era invece politico-elettorale, i risultati sono perfino più sconcertanti: i liberali sono passati in due anni dal miglior risultato della loro storia alla probabile estinzione politica, mentre il partito della cancelliera ha perso tutte le elezioni regionali tenutesi dalla primavera del 2010, il governo di due regioni-chiave come il Nord Reno-Westfalia e il Baden-Württemberg, e ovviamente pure il controllo del Bundesrat.
Se infine l’obiettivo era far maturare le condizioni per una riforma della zona euro che evitasse la creazione di una transfer union, la situazione e la discussione di questi giorni dimostrano che la transfer union sta diventando – anche e proprio in Germania – la sola via d’uscita credibile dalla crisi del debito sovrano in Europa.
Nessuno ha il coraggio di dire queste cose apertamente, in parte per paura di ritorsioni da parte del paymaster general dell’UE, e in parte anche per timore che – qualora Angela Merkel e la sua coalizione dovessero sfarinarsi del tutto – il day after possa riservare sorprese perfino peggiori. Ma non è così – non necessariamente, almeno.
Come uscirne – innanzitutto a Berlino
Se guardiamo alle posizioni presenti al Bundestag, infatti, le difficoltà per la cancelliera non vengono certo dalle opposizioni. Sia la SPD che i Verdi, pur criticando severamente il governo per la sua miope gestione della crisi del debito, sono pronti a votare a favore del rafforzamento dell’EFSF e di una robusta riforma dei trattati europei. È semmai la FDP liberale a essere momentaneamente tentata dalla deriva euroscettica per provare a recuperare qualche voto sul “mercato” politico tedesco – ma sarebbe davvero un triste epilogo per il partito di Hans-Dietrich Genscher, e dai risultati tutt’altro che scontati.
I due anni di legislatura che ancora mancano rischiano perciò di vedere una coalizione cristiano-liberale sempre più debole e impopolare affrontare una serie di decisioni di importanza cruciale non solo per il paese e, forse, non solo per l’Europa. L’alternativa più naturale (la Costituzione tedesca non la rende però semplicissima) sarebbero le elezioni anticipate: ma il solo pensiero di come reagirebbero i mercati internazionali a questa eventualità fa tremare le vene e i polsi.
Un cambio di coalizione “in corsa” non sarebbe invece una novità assoluta, neppure per la stabilissima Repubblica federale. Il precedente più significativo – e forse il solo davvero paragonabile – è quello del 1966: un’ormai stanca coalizione cristiano-liberale guidata dal padre del Wirtschaftswunder, Ludwig Erhard, fu rimpiazzata dalla prima Grande Coalizione postbellica fra CDU/CSU e SPD. In poco più di un paio d’anni il governo Kiesinger-Brandt pose le basi del successivo Modell Deutschland, salvo poi entrare in una fase di coma politico con l’avvicinarsi delle elezioni del 1969.
La Germania riunita del dopo-1989 ha anch’essa conosciuto una Grande Coalizione: quella del governo Merkel-Steinmeier nel 2005-2009. Vale la pena ricordare che, quando apparvero le prime avvisaglie di una possibile crisi finanziaria in Irlanda, nel febbraio 2009, l’allora ministro delle Finanze Peer Steinbrück rese immediatamente e pubblicamente chiaro a tutti – mercati compresi – che l’Unione (leggi: Germania) non avrebbe mai fatto mancare la necessaria solidarietà a un membro della zona euro, stroncando così sul nascere ogni possibile manovra speculativa. Ma i socialdemocratici uscirono bastonati dalle elezioni del settembre 2009, forse anche per il logorio accumulato in oltre un decennio passato al governo, rifugiandosi così all’opposizione a leccarsi le ferite.
È anche per questo che, probabilmente, la SPD non accetterebbe di rientrare al governo come semplice junior partner della CDU/CSU – per di più con molti meno voti e seggi (e quindi anche meno ministeri e influenza) rispetto al 2005, quando i due partiti erano quasi alla pari – e, in particolare, non accetterebbe di correre al soccorso di quella Angela Merkel che li ha già tanto abilmente irretiti una volta.
Altra cosa invece sarebbe immaginare una Grandissima Coalizione – un “governissimo”, nel gergo della politica italiana – che includesse anche i Verdi. I Verdi tedeschi hanno ormai completato l’evoluzione (tutt’altro che ovvia, e vent’anni fa perfino inimmaginabile) in partito mainstream e “popolare”, capace cioè di prendere voti in tutti i ceti sociali e tutte le fasce d’età. Ha ormai la stessa taglia – su scala nazionale – della SPD; è già stato al governo a Berlino (e anzi il suo leader di allora, Joschka Fischer, era e resta uno dei politici più stimati del paese); e ora guida addirittura l’amministrazione regionale del Land industrialmente più avanzato dell’intera Germania: il Baden-Wüerttemberg. Non solo: i Verdi tedeschi – a Berlino come a Strasburgo – sono oggi, presumibilmente, il partito più “europeista” che si possa trovare in Germania e, forse, in tutta l’Unione.
Un “governissimo” nero-rosso-verde – una combinazione cromatica cara agli afro-americani (e ai libici) – presenterebbe numerosi vantaggi:
- una solidissima maggioranza in entrambe le Camere, utile anche per ratificare (se necessario) eventuali riforme ai trattati europei, e promettente anche per Strasburgo, dove gli eurodeputati tedeschi sono i più numerosi nei tre gruppi rispettivi;
- un sostanziale equilibrio interno fra CDU-CSU e sinistra (SPD + Verdi), senza con questo pregiudicare le alleanze future (inclusa quella, nell’aria da tempo, fra cristiano-democratici ed ecologisti);
- una forte autorevolezza e legittimità politica sia nei confronti della stessa Corte costituzionale di Karlsruhe (che ha conferito appunto al Bundestag il potere di fare e disfare la politica europea) che nei confronti degli altri partners UE;
- last but not least, la corresponsabilità nelle eventuali decisioni da prendere su zona euro e riforme farebbe di tali decisioni un impegno e un vincolo per l’intero sistema politico nazionale (salvo la probabile opposizione di Die Linke sull’estrema sinistra), rendendole davvero “irreversibili” – per riprendere il termine usato da Helmut Kohl al momento del varo dell’Unione monetaria.
Ca va sans dire, difficile che possa essere Angela Merkel a guidare un “Grandissima” Coalizione di questo tipo. Ogni stagione politica dovrebbe avere il proprio leader, e la cancelliera ne ha già attraversate (e guidate) due. Non dovrebbero comunque mancarle altre opportunità per il suo futuro professionale, a cominciare da un ruolo di spicco (perché no?) nelle istituzioni comunitarie: l’ultimo – e unico – presidente tedesco della Commissione europea, Walter Hallstein, risale ormai a mezzo secolo fa, e un maggiore investimento tedesco su Bruxelles sarebbe del tutto auspicabile.
Il cancelliere ideale del “governissimo” dovrebbe invece essere a tempo, avere un’indiscussa credibilità personale, e non coltivare ulteriori ambizioni per il dopo. E chi meglio di Wolfgang Schäuble potrebbe ricoprire questo ruolo – vero e proprio coronamento di un lungo cammino e un impegno europeo iniziato oltre vent’anni fa con Kohl?