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Palestina, il momento non è ancora venuto

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È venuto il momento: nel suo discorso alle Nazioni Unite, fra applausi scroscianti, il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, ha motivato la richiesta per l’ammissione all’ONU di uno Stato indipendente e sovrano, all’interno dei confini del 1967. È venuto il momento, ha ripetuto varie volte un vecchio leader, deciso a scrollarsi di dosso l’eredità di Yasser Arafat. È venuto il momento, anche se Barack Obama ha già annunciato che Washington metterebbe il suo veto in Consiglio di sicurezza. È venuto il momento, anche se il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha ribadito a una gelida platea di New York – ma dove Israele può ancora contare su una “minoranza morale” – che l’unica soluzione possibile resta la pace, prima dello Stato. Ecco, il problema è che il momento non è ancora venuto. La richiesta di Mahmoud Abbas, è giusto saperlo, è soprattutto simbolica. Perché ci vorrà del tempo per andare ai voti. E l’esito è scontato in anticipo: senza un accordo negoziato con Israele, uno Stato palestinese sovrano non nascerà. Solo il Consiglio di Sicurezza, infatti, può ammettere un nuovo Stato a pieno titolo; e non accadrà, in assenza di un accordo con Israele. Il massimo a cui Abbas può aspirare è il riconoscimento della Palestina, da parte dell’Assemblea generale, come Stato osservatore permanente senza diritto di voto. È la soluzione “vaticana” per lo Stato palestinese: secondo parte degli europei, a cominciare da Nicolas Sarkozy – il presidente francese più filo-israeliano dal 1967 in poi ma anche il presidente deciso a tentare il grande rilancio della Francia nelle terre d’Arabia – è la soluzione su cui puntare, insieme alla ripresa di un negoziato bilaterale in tempi certi e stretti. Il Quartetto (Stati Uniti, UE, UN, Russia) ha proposto negoziati entro un mese, da New York. E si continua a discutere in che modo una Risoluzione “vaticana” potrebbe tranquillizzare Israele su uno dei punti principali: che la Palestina rinunci a usare la Corte criminale internazionale per perseguire le politiche dello Stato ebraico.

Gli scenari reali – fra discorsi, diplomazia e simboli – sono questi. Per Abbas è decisivo presentarli come una vittoria, almeno parziale; se perdesse, il vincitore sarebbe Hamas e l’Autorità palestinese si troverebbe con un’intifada in casa, prima che contro Israele. È un punto di cui Netanyahu deve essere consapevole. Per il premier israeliano, d’altra parte, il discorso di Barack Obama all’Assemblea di New York – con l’opposizione esplicita del Presidente americano, ormai in campagna elettorale, a uno Stato palestinese dichiarato per mezzo di Risoluzioni dell’ONU, invece che di negoziati con Gerusalemme – è già un mezzo successo. Israele, dopo avere perso l’alleanza privilegiata con Ankara e il pilastro dell’Egitto di Mubarak, ritrova almeno l’America. O quello che ne rimane sulla scena medio-orientale. Il principio sollevato da Abbas a New York non è controverso. È semplice e noto: come prevedono le Risoluzioni dell’ONU, dal 1947 in poi, i palestinesi hanno diritto al loro Stato, esattamente come gli israeliani. Gli Stati Uniti (da Clinton a Bush figlio a Barack Obama), l’Unione Europea (al di là delle sue divisioni fra governi filo-israeliani e governi filo-arabi), l’élite politica israeliana (Netanyahu incluso, nonostante gli errori compiuti e gli insediamenti accumulati) sono d’accordo su questo, sono d’accordo che la soluzione al conflitto israelo-palestinese è fondata su due Stati. In discussione non è il principio, quindi. In discussione è se l’iniziativa diplomatica del presidente palestinese, specchio delle frustrazioni della sua gente e del timore dell’ANP di perdere legittimità all’interno, aumenti o riduca le possibilità di un accordo con Israele che, con l’ultimo governo, ha fatto di tutto meno che negoziare sul serio.

Può insomma funzionare una “terza via alla Palestina” – per usare la definizione del Foreign Affairs? Dopo la fase della lotta armata e quella del negoziato senza fine promosso da Washington, il tentativo palestinese è di fare leva sui risultati ottenuti da Salam Fayyad (il premier tecnocratico, che per quattro anni ha puntato a costruire le condizioni economiche e le istituzioni del futuro Stato) e sulla legittimità del passaggio alle Nazioni Unite. Riuscirà? Il rischio vero è che, dopo New York, i negoziati per la riconciliazione con Hamas e le future elezioni premino paradossalmente il partito – Hamas, appunto – che ancora respinge la soluzione dei due Stati. E che è pronto a descrivere il passaggio all’ONU di Abbas come una sconfitta, più che una vittoria. Il che ci riporta al problema principale, scontato ma quasi dimenticato nei commenti di questi giorni. L’ANP sta chiedendo a New York il riconoscimento della propria sovranità su un territorio che non è in grado di controllare del tutto. Finché Hamas resterà al comando a Gaza, uno Stato palestinese unitario non sarà credibile. Anche per questo, non è così ovvio che l’iniziativa diplomatica palestinese, combinata alla pressione internazionale, riesca a far funzionare un negoziato con Israele. Al di là delle responsabilità negative del governo Netanyahu, la realtà è che lo Stato ebraico è in una situazione strategica difficilissima. Per la prima volta da decenni, il pericolo di un progressivo isolamento non è immaginato ma è reale. Una situazione che, si dice con troppa facilità dall’esterno, dovrebbe spingere gli israeliani a capire che la nascita di uno Stato palestinese è nei loro migliori interessi. Sì, ma se sarà uno Stato unitario e deciso a vivere in pace con lo Stato ebraico. Il timore di Israele è che la richiesta palestinese alle Nazioni Unite generi invece nuove violenze anche nella West Bank; in un contesto, quello dei rivolgimenti arabi, molto più delicato di prima. Difficile fare previsioni, quindi. Ma la sensazione è netta: l’alternativa a una soluzione negoziata non sarà la nascita per via unilaterale di uno Stato palestinese, poi sanzionata sul piano internazionale; sarà un nuovo conflitto, con ramificazioni regionali più rischiose che in passato.