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La fine di bin Laden vista da Kabul

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Secondo un rapporto del Pentagono dei primi di maggio, la sicurezza in Afghanistan è minacciata dalla presenza di vari gruppi armati, le cui tattiche continuano a evolversi sulla base delle esperienze derivate dagli ultimi sviluppi delle azioni sul terreno. Al Qaeda è il meno importante tra loro.

Quello che, in questo eterogeneo universo guerrigliero, si rifà direttamente alla rete di bin Laden conterebbe ormai, da circa un anno, non più di un centinaio di uomini (la CIA parlò di un numero tra 50 e 100 nel giugno 2010, e il comando delle truppe NATO-ISAF di circa 100 nel marzo 2011).

I rapporti della NATO sostengono che alcune cellule sono attive nelle aree del Kunar e del Nuristan, dove la presenza militare occidentale o dell’esercito nazionale è minore o assente; ma anche qui sono sottoposte a continua mobilità forzata. Informazioni di stampa hanno supposto anche qualche campo di addestramento in Afghanistan direttamente riconducibile ad al Qaeda. In sostanza, poca cosa in termini quantitativi, e probabilmente con un discreto grado di confusione organizzativa: vi è infatti una varietà di gruppi, tra qaedisti “puri e duri”, gruppi “salafiti” o legati ad altre formule ideologiche dell’islam radicale, bande di “stranieri” autorganizzate in transito dal Pakistan. Alcuni sono simpatizzanti in alcune frange del movimento talebano (la rete Haqqani) che sembrano però avere un rapporto teso e difficile con la shura di Quetta, il Gran consiglio di mullah Omar e la fazione guerrigliera maggioritaria. Non c’è dubbio ormai che le simpatie per il qaedismo sono molto scemate, sia in relazione alla sua strategia politica (la jihad globale) che alle sue tattiche militari (le azioni kamikaze).

Alla domanda dunque “cosa cambia in Afghanistan” dopo il raid di Abbottabad e la morte di Osama bin Laden, la risposta deve essere necessariamente articolata. E soprattutto deve essere riferita, più che direttamente al fronte afgano, al versante pachistano e a quello americano. A Washington la “missione compiuta” potrebbe corrispondere ora alla volontà di chiudere in modo accelerato la partita afgana. Il che ha, ovviamente, una forte influenza su quello che avviene sul terreno.

Facendo rapidamente qualche conto sulla nota spese americana in Pakistan, intanto, tra il 2002 e il 2010 il Congresso ha approvato 10,65 miliardi di dollari tra aiuti di ricostruzione (il 60%) e sostegno alla sicurezza del paese.  Ma a ciò si aggiungono 8,88 miliardi in “rimborsi” all’apparato militare di Islamabad, una cifra che si dovrebbe arricchire di altri 4 miliardi per il 2012. Un bilancio che, nonostante le dure polemiche seguite al raid di Abbottabad, non dovrebbe in effetti diminuire: c’è chi ritiene che con la fine di bin Laden la missione sia davvero compiuta, e chi pensa che la guardia debba a maggior ragione restare alzata, ma tutti sembrano concordi sul fatto che il Pakistan non vada lasciato al suo destino. Il riluttante alleato andrà magari redarguito, pressato, responsabilizzato; ma non abbandonato.

Anche le voci americane più critiche, già molto irritate dal braccio di ferro con Islamabad sul caso di Raymond Davis (il contractor della CIA arrestato in Pakistan per l’uccisione di due persone, e diventato un dossier bollente tra la fine del 2010 e inizio 2011) sanno inoltre che più della metà della logistica di servizio per le forze schierate in Afghanistan passa proprio dal Pakistan.

Intanto sta entrando nel vivo la fase operativa della exit strategy afgana, già da tempo annunciata da Obama. I sondaggi del dopo-raid danno dieci punti in più al presidente per come ha agito, ma il giudizio dell’opinione pubblica resta negativo sulla gestione dell’economia: è chiaro quindi che la sirena del disimpegno tenderà a diventare più rumorosa per ragioni di portafoglio prima che di consenso sulle questioni di sicurezza. Del resto, le cifre sono davvero impressionanti, visto che le stime ufficiali parlano di un costo totale ben oltre i 400 miliardi di dollari (escluso l’intervento umanitario), e di circa 120 miliardi per il solo 2011. Un dato anche politicamente significativo è che nel 2010 i costi annuali della guerra afgana hanno superato, per la prima volta, quelli dell’impegno in Iraq.

Sullo sfondo della espressa decisione americana di ritirarsi (o quantomeno ridurre radicalmente la presenza militare), si colloca la volontà del Pakistan di avere, a qualunque costo, un ruolo da protagonista nel processo di pace afgano. E anche in questo caso c’è una forte dimensione economica: i pachistani saranno indotti a dimostrarsi dei fedeli alleati per non perdere i massicci finanziamenti americani. Islamabad potrebbe quindi arrestare alcuni capi talebani, rendere precari i santuari e aumentare la pressione politica e militare sugli “ospiti” afgani.

Dal canto loro, i talebani più favorevoli a un accordo potrebbero ora considerare più seriamente l’ipotesi di isolare i gruppi filo-qaedisti, magari con l’incoraggiamento americano e delle Nazioni Unite mediante la cancellazione di alcuni nomi dalle liste dei terroristi. Si possono anche immaginare ipotesi di garantire una sorta di salvacondotto per la trattativa o l’esilio.

Questo processo di moderazione del conflitto non è certo scontato – perché è anche possibile che le reti qaediste o filo-qaediste (Haqqani, salafiti, stranieri) reagiscano con azioni mirate – ma sembra probabile, visto il limitato appoggio popolare di cui godono i gruppi più violenti. Un problema può derivare dal tentativo, quasi inevitabile, di rivendicare l’avvio del ritiro americano come una vittoria. Inoltre, restano gli ostacoli strutturali al processo negoziale: le forzature pachistane (per controllare e guidare le trattative), l’indecisione americana (con chi trattare, e in modo quanto diretto) e l’incapacità del governo Karzai di seguire una linea coerente (per cui a volte Kabul è apparsa come un problema e non una soluzione). Difficile poi perseguire un negoziato strutturato data la frammentazione della controparte, per cui anche la leadership di mullah Omar è oggi posta in dubbio da molti osservatori.

La fine di bin Laden (non ancora la fine della sua rete) può dunque far uscire dall’impasse una trattativa rimasta sotto traccia. Soprattutto se si confermerà la netta sensazione di un affievolirsi del richiamo jiadista che è risultata finora evidente nel contesto delle rivolte arabe.

In questo caso, non sarà qualche azione kamikaze a interrompere una possibile primavera. Dipenderà tutto dalla reale volontà dei principali attori sulla scena (Karzai, talebani, Stati Uniti e Pakistan, ma anche India e Iran) di deporre la spada: Barack Obama sta già tentando questa strada, e spera certamente di aver riservato l’ultimo fendente allo sceicco del terrore.