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Lo stato palestinese e l’Assemblea ONU: superare lo stallo?

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Salam Fayyad e Abu Mazen hanno annunciato che a settembre l’Assemblea delle Nazioni Unite potrebbe riconoscere ufficialmente l’istituzione di uno stato palestinese. 110 paesi, più della metà dei componenti dell’Assemblea ONU, l’hanno già fatto finora, ma l’ANP attende ancora il riconoscimento dei paesi più importanti. In particolare, di attori direttamente coinvolti negli sforzi di mediazione, in primis gli USA ma anche i paesi membri della UE. Un riconoscimento internazionale in sede di Nazioni Unite doterebbe l’ANP di piena personalità giuridica, trasformando il conflitto israelo-palestinese, formalmente, in un conflitto territoriale tra stati. 

Fayyad ha presentato i risultati del rapporto “Building Palestine: achievements and challenges” all’ultima conferenza dei maggiori donatori (il cosiddetto AHLC, Ad Hoc Liasion Commitee, che comprende 12 membri della UE e gli USA). Si tratta di una piattaforma di paesi donatori che finanziano il budget statale sia dell’ANP che di Hamas a Gaza, e che lo scorso aprile si è ufficialmente pronunciato a favore dell’istituzione di uno stato palestinese nel 2011.

Fayyad ha annunciato i progressi dell’ANP in tutti i settori strategici oggetto di donazioni e investimenti esteri: salute, istruzione, energia, sicurezza, giustizia, occupazione e alloggi. L’economia cresce al 9.3%, continua a vedere la riduzione dei propri tassi di disoccupazione (dal 26.6 al 23.4% dal 3° e il 4° trimestre 2010, fermo al 16.9% in Cisgiordania) e ha ottenuto risultati importanti nelle infrastrutture, collegando tutti i villaggi, anche i più remoti, alla rete elettrica e asfaltando più di 2.250 km di strade all’interno della West Bank. L’ANP presenta inoltre risultati molto positivi anche nella creazione d’impresa, con 591 nuove società costituite soltanto tra il novembre 2010 e il febbraio 2011 per un capitale complessivo di 392.5 milioni di dollari. Il ministro della Pianificazione e dello Sviluppo, Ali Jarbawi, ha annunciato a sua volta che l’ANP diventa sempre meno dipendente dagli aiuti esteri, con una riduzione complessiva del debito del 35% dal 2009 e entrate statali pari a 2 miliardi di dollari. L’ANP persegue anche azioni dimostrative come il progetto di nuovi insediamenti palestinesi – ad esempio Rawabi, futura città residenziale modello per la nuova borghesia nei dintorni di Ramallah – per rimarcare che l’attività edilizia non è vincolata al consenso israeliano e ai capoluoghi storici già presenti.

Nella sua relazione, Fayyad ha rimarcato come la Palestina cresca nonostante i limiti derivanti dalle restrizioni alla mobilità, dal divieto di accesso e sfruttamento di risorse naturali (soprattutto risorse idriche) e dall’impossibilità di costruire infrastrutture di collegamento internazionale (porti e aeroporti) imposte dall’occupazione.

In presenza di tali limiti, ha sostenuto Fayyad, la Palestina non potrà continuare a crescere. E qui emerge l’inevitabile nodo tra sviluppo economico e sovranità politica palestinese. L’approccio tecnico di Fayyad è servito a garantire all’ANP il sostegno e gli investimenti dei paesi occidentali e la costruzione di uno stato palestinese “dal basso”, ovvero a partire dalle esigenze, in primis economiche, della società civile. Ma “il tappo” costituito dall’occupazione israeliana, ricorda Fayyad, blocca ulteriori sviluppi. Per questo motivo l’ANP ha deciso di rivolgersi alle Nazioni Unite, nella speranza di esercitare una pressione politica indiretta che riconduca Israele nuovamente al tavolo dei negoziati.

I palestinesi credono solo in parte alla possibilità di dichiarare uno stato unilateralmente a settembre: solo il 54%, nelle stime del Palestine Center for Policy and Survey Research, si dice convinto che uno stato palestinese vedrà la luce da qui a 5 anni. Fayyad non gode di vasti consensi popolari, come del resto Abu Mazen, in continuo calo nei sondaggi ed attualmente fermo al 55% (dopo Marwan Barghouti, dato al 64%). Inoltre, tali sondaggi si riferiscono all’eventualità di elezioni presidenziali ventilate da Abbas in seguito alle manifestazioni di piazza indette a Ramallah in solidarietà all’Egitto, ma attualmente poco probabili. Il mandato di Abu Mazen è scaduto nel 2009 ma per l’ANP è impossibile convocare nuove elezioni nazionali prima di una riconciliazione con la rivale Hamas. Indire elezioni soltanto in Cisgiordania significherebbe di fatto sancire la spartizione del paese in due enclavi autonome, ma questa decisione è contestata dalla maggioranza dei palestinesi, scesi in piazza recentemente proprio per richiedere l’unità nazionale e la scarcerazione reciproca dei prigionieri.

I negoziati per la riconciliazione nazionale sono già stati avviati tra una delegazione di 7 rappresentanti di Hamas e 7 rappresentanti di Fatah, incontratisi al Cairo per congratularsi con la nuova leadership egiziana in occasione della cacciata di Mubarak. Rimane però l’ostilità di Hamas – e soprattutto della sua dirigenza politica presente in Siria – all’ipotesi di porre fine alle attività militari offensive contro Israele (anche per paura di contestazioni da parti di gruppi estremisti interni alla Striscia, come i Salafiti). Hamas tende a temporeggiare in base al calcolo che gli sviluppi politici in Egitto le possano essere favorevoli nel lungo periodo (come nel caso dell’apertura del valico di Rafah invocata dalla recenti manifestazioni di piazza ad Alessandria davanti all’ambasciata israeliana).

Entrambe le fazioni palestinesi guardano in effetti alla nuova leadership politica egiziana in attesa di una guida, nella speranza che l’Egitto – e non la Turchia – riprenda in mano il processo di mediazione tra le parti.  È però difficile prevedere progressi sostanziali nel breve termine: Hamas rimprovera all’ANP il coordinamento delle proprie forze militari e di polizia con Israele e cavalca l’onda dell’opposizione popolare alle rivelazioni di WikiLeaks, che hanno mostrato come l’ANP fosse disposta, nei negoziati segreti con Olmert, ad addivenire a concessioni politiche sostanziali. A sua volta l’ANP non può non tenere conto dell’avvertimento di Netanyahu che, qualora la riunificazione si compia, qualsiasi relazione ufficiale con le autorità di Gerusalemme verrà meno.

Nel frattempo Israele sa di trovarsi su un binario morto. Se il ministro della Difesa Ehud Barak ha parlato di “effetto tsunami” per quanto riguarda le recenti sollevazioni popolari nel mondo arabo, Netanyahu si è impegnato a incrementare il bilancio militare in vista delle nuove sfide che attendono il paese. Tra le minacce, ricompare l’Egitto ad orientare le scelte sui sistemi d’arma e il loro possibile schieramento.

In totale la Knesset ha assegnato alla difesa un bilancio pari a 53,4 miliardi di dollari sui 55 richiesti dall’establishment militare, con un incremento netto di circa 15 miliardi dal 2000 (erano infatti 39 miliardi di dollari prima dell’intifada al-Aqsa). Ancora oggi, con un’economia in crescita ma in presenza di un bilancio di sicurezza definito dallo stesso ministero delle Finanze come preoccupante, Israele sa di non potere fare a meno dei quasi 3 miliardi (2,775 nel 2010) di dollari annuali provenienti ufficialmente dal governo americano.

Intanto, non è chiaro se Tel Aviv abbia un piano diplomatico per disinnescare la crisi. Si parla di un’eventuale offerta di Netanyahu ad Abu Mazen di un ritiro dalle aree dove non vi siano insediamenti israeliani. Questa appare però una misura parziale a fronte della mancata promessa di congelamento della costruzione di nuovi insediamenti e di un impegno sostanziale nello smantellamento delle postazioni illegali. Sembra impossibile riavviare negoziati preliminari nell’assoluta assenza di una soluzione finale almeno ipotizzata. Il nuovo piano Obama, annunciato dall’amministrazione ma poi smentito da Dennis Ross, il consigliere del presidente per gli affari del Medio Oriente, sembra non presentare alcun leverage positivo nei confronti dell’alleato Netanyahu.

In queste condizioni di stallo, la carta diplomatica dell’ANP sembra perlomeno avere il merito di rimettere in moto un meccanismo internazionale pericolosamente inceppato, prima che forze più radicali – dall’una o dall’altra parte – siano tentate di riprendere autonomamente l’iniziativa. È probabile che saranno comunque necessarie da parte della comunità internazionale alcune misure effettive di pressione nei confronti di Israele, se non si vuole che giunga una nuova intifada a congelare ancora ogni prospettiva negoziale per molti anni.