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Washington e Riyad in maggiore sintonia, ma con il test spinoso dello Yemen

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“Laddove vi sono problemi in Medio Oriente, c’è l’Iran”. James Mattis, Segretario statunitense alla Difesa, non poteva scegliere parole più mirate per rassicurare l’Arabia Saudita, nel corso del primo viaggio ufficiale a Riyad, il 18 aprile scorso. Una dichiarazione che non solo esprime il cambiamento tra le amministrazioni Trump e Obama rispetto al Medio Oriente, ma che evidenzia anche la sintonia d’analisi tra l’attuale Casa Bianca e il regno wahhabita. Alla convergenza sulla percezione geopolitica – l’Iran come primo fattore di destabilizzazione regionale potrebbero seguire atti politici concreti.

Adesso dunque Washington e Riyad ˊleggonoˋ il Medio Oriente in modo similare: ciò potrebbe condizionare anche il conflitto in Yemen, iniziato nel marzo 2015, quando una coalizione militare di nove stati arabi, guidata dall’Arabia Saudita, cominciò a bombardare l’alleanza sciita fra gli huthi e il network dell’ex presidente Saleh, artefici del golpe del gennaio 2015.

Il porto di Hodeida in Yemen

Il Generale Mattis è l’uomo chiave della ricucitura strategica fra statunitensi e sauditi, poiché la dimensione militare è, ancora prima dell’economia, il cuore di questa alleanza, soprattutto dopo il ritorno geopolitico dell’Iran.

Da parte saudita, il trentenne Mohammed bin Salman, figlio del sovrano, vice principe ereditario e ministro della Difesa, vuole accreditarsi come interlocutore principale (ai danni del cugino, il principe ereditario Mohammed bin Nayef). È stata sua la prima visita degli al-Saud da Donald Trump, lo scorso 15 marzo. Dunque, la partita per la successione al trono si intreccia al riavvicinamento tra Washington e Riyad. La fresca nomina di un altro figlio del re, il principe Khaled bin Salman, a nuovo ambasciatore saudita a Washington va in questa direzione, sottolineando il crescente peso del fattore militare negli equilibri di potere di Riyad: pilota dell’aviazione addestrato negli Usa, il neo-ambasciatore ha esperienze di combattimento aereo sia in Yemen che nella coalizione anti-Daesh.

In Yemen, la guerra è nata come scontro inter-tribale per il potere e le risorse, ma ormai è anche un conflitto indiretto fra Arabia Saudita e Iran in cui la variabile settaria (sunniti contro sciiti) è stata artificiosamente attivata dagli attori regionali per fini politici. Tuttavia, ciò ha finito per favorire solo l’affermazione di al-Qaeda nella Penisola arabica (AQAP). Lo stallo militare è assoluto: intanto, il paese scivola, ogni giorno di più, in una crisi umanitaria senza precedenti (secondo l’Onu, il 60% della popolazione necessita di aiuti perché rischia la carestia) ed è ormai prossimo a divenire uno “stato fallito” quasi come la Libia. Le linee del fronte sono da tempo bloccate: la capitale Sana’a (roccaforte di Saleh) è sempre nelle mani degli insorti e Taiz rimane contesa tra le due fazioni, così come vasti territori centrali.

Per l’Arabia Saudita, non c’è alternativa alla vittoria militare in Yemen: le incursioni terrestri e i lanci di razzi e missili da parte degli huthi dal paese confinante crescono per frequenza e capacità di proiezione. Tuttavia, dal momento che Riyad non ha una exit-strategy da quel ”vaso di Pandora” che ha contribuito ad aprire, l’unico modo per trovare una soluzione politica al conflitto (auspicata anche da Mattis) è costringere l’alleanza huthi-Saleh a negoziare la sconfitta: ma perché questo accada, ci vuole una chiara prova di forza militare della coalizione che rompa l’attuale stallo.

L’esercito yemenita e le milizie alleate, con la copertura aerea saudita-emiratina, sono riusciti ad avanzare soltanto lungo la costa occidentale yemenita, che si affaccia sul mar Rosso (l’operazione Golden Spear ha portato in tre mesi alla riconquista di al-Mokha lo scorso febbraio): è qui che l’Arabia Saudita vuole vincere la guerra e, pertanto, è qui che il rilancio dell’alleanza tra Washington e Riyadh verrà messo alla prova militarmente. Dal 2015 gli Stati Uniti sostengono la campagna militare saudita in Yemen (intelligence-sharing, appoggio logistico, rifornimenti in volo): ma per recuperare Hodeida, porto fondamentale del mar Rosso tuttora in mano agli insorti, re Salman e Mohammed bin Zayed, il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, chiedono a Donald Trump di raddoppiare gli sforzi, sia militari (forze speciali, supporto navale e munizioni di precisione) che politici (sostegno diplomatico incondizionato).

Quindi, la battaglia per Hodeida sarà fondamentale, ma ricca di insidie. Questo porto container collega la costa yemenita alle terre settentrionali originarie degli huthi: da qui, nonostante l’embargo della coalizione, si ritiene che entrino una parte delle armi che l’Iran invia agli insorti. Grazie alle tasse portuali, per esempio sul carburante, gli huthi finanziano la guerriglia interna e frontaliera. Riprendere il porto di Hodeida, che dista 4 chilometri dall’omonima città di 400mila abitanti, consentirebbe ai sauditi di limitare sanguinosi combattimenti urbani – una tra le ragioni che hanno bloccato l’offensiva su Sana’a, città di oltre due milioni di abitanti. Da una prospettiva logistica, Hodeida è poi perfetta per operazioni anfibie, grazie all’appoggio delle basi navali vicine, quella saudita nel Jizan e il nuovo avamposto militare emiratino ad Assab, in Eritrea.

Per gli Stati Uniti, dire di sì ai sauditi sarà però difficile (e sarà altrettanto complicato dire di no). Un problema di fondo è che la quasi totalità degli aiuti umanitari e dei viveri entrano in Yemen proprio dal porto di Hodeida, già pesantemente bombardato: e il paese dipende per l’80% dall’import alimentare. Attaccare Hodeida, magari con l’obiettivo di piegare la resistenza huthi nel nord tagliando le vie di comunicazione con la costa, significherebbe aggravare la crisi umanitaria di tutto lo Yemen: così, Washington si esporrebbe pesantemente alle critiche di media e opinione pubblica mondiale.

Anche in Yemen, l’Amministrazione Trump dovrà quindi provare a elaborare una strategia, coordinando i mezzi agli obiettivi americani: i primi tre mesi di presidenza, caratterizzati da imprevedibilità e contraddizioni, hanno rivelato che proprio l’assenza di strategia è il principale limite di Trump in politica estera, limite che si accentua nel vischioso Medio Oriente. Gli obiettivi Usa in Yemen sono tre: evitare che il Paese divenga un santuario per AQAP e per le formazioni jihadiste affiliate (Ansar al-Sharia) o concorrenti (“Stato Islamico” in Yemen), limitare i rischi alla libertà di navigazione militare e commerciale nello stretto del Bab el-Mandeb (passaggio obbligato per Suez), impedire che la milizia huthi si trasformi in una copia, seppur pallida, di Hezbollah.

Purtroppo, tutto ciò è già accaduto. La nuova amministrazione ha effettuato in tre mesi più di 70 raid contro AQAP nello Yemen centro-meridionale (nel 2012, anno record, Obama arrivò a 41, ma in un intero anno), permettendo al Pentagono di colpire senza l’autorizzazione del presidente e autorizzando una controversa operazione di commando in al-Bayda, costata la vita a un soldato americano e a una quarantina di yemeniti, per metà civili, e fruttata una moltiplicazione degli appelli video di Al Qaida a colpire negli Stati Uniti. Complice anche l’anarchia dello Yemen, l’area del Bab el-Mandeb è poi diventata “un passaggio straordinariamente stretto”, nelle parole del Generale Joseph Votel: da qui passano ogni giorno quasi 4 milioni di barili di greggio diretti in Europa e Usa. L’alleanza huthi-Saleh ha già attaccato quattro navi da guerra (tra cui due statunitensi) e minato le acque in prossimità del porto di al-Mokha, dove è stata inviata la USS Cole. Persino la pirateria si riaffaccia tra il golfo di Aden e le coste somale: a causa dell’instabilità socio-politica del quadrante, sono già cinque gli attacchi compiuti dai pirati somali nel 2017, i primi dal 2012. Infine, come in una profezia che si auto-compie, adesso l’Iran sta davvero incrementando il trasferimento di armi sofisticate agli insorti sciiti in Yemen (droni, missili anti-carro, imbarcazioni-drone, missili Scud già nell’arsenale yemenita ora modificati per lunghe gittate), nonché l’addestramento militare.

In Yemen, l’intensificazione dell’appoggio militare statunitense all’Arabia Saudita genererebbe l’aumento simmetrico del sostegno iraniano agli insorti: uno scenario di escalation di cui AQAP si avvantaggerebbe. Guardando alla relazione fra Washington e Riyad, la domanda è se il presidente Trump troverà un punto di equilibrio fra sostegno agli alleati strategici e capacità di discernere e perseguire gli interessi nazionali Usa nell’area, evitando rischi di overstretching dopo il raid contro Assad, la “superbomba” in Afghanistan, l’invio di altri soldati tra Siria e Somalia, le fibrillazioni in Corea Nord. Nel 1962, il presidente Kennedy ci riuscì, quando confermò a re Faisal l’ombrello di sicurezza Usa, ma rifiutò il coinvolgimento bellico in Yemen al fianco dei sauditi, contro i repubblicani sostenuti dall’Egitto (era la “guerra fredda araba”, come ricordato da Bruce Riedel in un recente articolo).

L’evoluzione del conflitto in Yemen sarà dunque la cartina di tornasole dei rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita, nonché di quelli fra Stati Uniti e Iran. E sarà interessante vedere se e come – al di là dei massicci attacchi contro i jihadisti di AQAP – il presidente della retorica isolazionista farà uso dello strumento militare in Yemen.